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L 5. a zia Wanda e suo marito Osvaldo non avevano figli. Un nipote “fenomeno” li aveva ricompensati. «Ci è capitato un bambino così» mormoravano in giro fingendo di stacco, e quasi si scusavano, come se quel nipote avesse giocato loro un gran brutto tiro. Osvaldo era un uomo bello, con capelli ricciuti che sembravano virare al bianco quasi per scherzo e un portamento da maestro di cerimonie a palazzo reale. Un vero gentiluomo ge novese, diceva la gente, anche se genovese non era. Livorno era stata la sua città di nascita e di famiglia, ma Genova aveva prov veduto a dargli il luogo. La gioielleria Nunes, proprietà della sua famiglia, era la più frequentata della città. Fra i suoi clienti, corredati da mogli e amanti, si contavano quasi tutti gli uomini dotati di pa trimonio e spirito del tempo, ed era scontato che avessero an che solidi rapporti con il regime. Certo non suonava educato farvi allusione. Nessuno di loro era un gerarca, ba stava conoscere un gerarca. Alla scuola di Alessandro avevano dato un tema in classe, “Per ché amo il Duce”, e il bambino si era buttato. Ne era ve nuto fuori un personaggio che era a metà strada fra suo padre e lo zio Osvaldo – persino i capelli ricci appena un po’ bianchi dello zio ci aveva infilato –, ma lo aveva scritto con tanto ardore che la maestra gli aveva messo un dieci. Non si era accorta che quell’uomo di alta statura e silenziosa saggezza in nulla corrispondeva a Benito Mussolini. Era davvero bravo, pensava, quello scolaro più piccolo degli altri, e non era un caso che fosse stato scelto per declamare, in perfetta divisa da balilla, il giuramento di fedeltà al Fascio nel salone grande e a nome di tutta la scuola. Era poi partito per Roma con il resto della classe per andare ad applaudire il Duce proprio sotto il suo balcone a Palazzo Venezia. La maestra non aveva potuto partecipare, doveva curarsi dei due figli piccoli, entrambi cagionevoli con la gola, che si erano am malati proprio nei giorni del viaggio. Ma i suoi ragazzi in di visa, loro sì che avevano rappresentato con onore la baldanza della primavera fascista. Ne era stata orgogliosa. Di ritorno a Genova, Alessandro aveva ripreso con le adunate del sabato a piazza della Vittoria. Però non capiva cosa gli stesse succedendo. Lo scenario era lo stesso, era lui che era cambiato. Le parti del suo corpo non parlavano fra loro. Gli pareva che mani e piedi avessero preso sonno e non obbedissero più ai comandi. La divisa gli diventava fradicia di sudore anche quando il sole non c’era, il pensiero non riusciva più a volare neanche in frammenti distratti. Poi capì: era la noia il grande mo stro paralizzante. Ore e ore in una piazza ad aspettare qualcuno che doveva arrivare, senza neanche sapere chi fosse. Forse non esisteva. O non sarebbe arrivato mai. Un giorno fece un passo piccolo verso l’esterno della piazza, ne seguì uno doppio e più veloce. Girato l’angolo cominciò a correre. All’adunata non andò mai più e nessuno se ne accorse. Il capomanipolo fra l’altro non gli piaceva per niente, allungava sempre le mani sui bambini. Il figlio non andava più alle adunate del sabato. Emilia si preoccupava, Marc fece un mezzo sorriso. «Gli hai parlato tu di cose politiche?». Ma il tono della moglie da tempo era più di normale richiesta che di accusa. «No no». Marc si difese comunque. «Non vo glio mica che a scuola si trovi in difficoltà». Ma intanto chi era a leggere ad alta voce al bambino interi pezzi di quel giornale francese che aveva il banale nome di Le Journal? Complimenti al fascismo non ne faceva davvero, quel fogliaccio. E poi raccontare a suo figlio la guerra di Spagna come se fosse l’avventura a puntate di un giornaletto, con le brigate a combattere per i buoni e il generale Franco con i fa scisti a rappresentare i cattivi! Anche gli italiani, fra l’altro, era no tra gli alleati di Franco. C’era solo da sperare che a scuola della guerra di Spagna non si parlasse mai. Ma Marc lo conosceva o non lo conosceva suo figlio? Lo avevano capito tutti che fin da piccolo Alessandro si innamorava di certe parole. Adesso per quella storia della Spagna si era infiammato per un termine francese riferito ai combattenti “buoni”: gouvernementaux. La ripeteva continuamente, quella parola, forse perché aveva tante sillabe e gli dava l’impressione di fare su e giù sui tasti di un pianoforte. Solo uno sprovveduto come suo marito poteva credere che no, non stava affatto instillando idee politiche nel figlio. Per fortuna un giorno Marc aveva avuto un’altra idea. Gli aveva portato un giornaletto, quello sì per bambini. Si chiamava L’avventuroso. Così si rende felice un figlio. Ora finalmente Alessandro parlava solo di Gordon e della sua eterna fidanzata Dale, di Cino e Franco, insomma avventura e basta. Tenersi lontano dalla politica, però, in quei tempi era assennato ma non facile. In famiglia c’è sempre qualcuno che ha vo glia di accendersi contro. Carlo, per esempio, un “cugino” di chissà quale grado – tanto si chiamavano tutti cugini –, cocciutamente iscritto al Partito comunista da quando aveva aperto gli occhi al mondo. Forse perché avevano a che fare con carbone e fuoco, ma erano tutti così i ferrovieri genovesi. E peggio per Carlo se, ogni volta che si teneva in città qualche manifestazione con personalità del Regno, gli capitava di dover dormire due notti in cella. Il posto in ferrovia non l’aveva perduto e doveva ringraziare, anche se era stato relegato in un de posito a sistemare pezzi di ricambio usati. Pure il nonno Luigi era stato feroviêre, ma per fortuna era andato in pensione e non aveva fatto in tempo a diventare co munista. Una sera Osvaldo, in compagnia della moglie, arrivò molto prima del loro consueto appuntamento. Non era nel suo stile essere affannato, ma quella volta sembrava avesse fatto di corsa i quattro piani di scale. «Mi ha telefonato nostra cugina Bruna. Piangeva, era disperata. Gli è sparito il figlio». Poi dopo una pausa: «Dice che devono averglielo arrestato i fascisti» mormorò a testa bassa.