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Sono consapevole di aver contribuito a creare un sistema che per anni ha inciso sul mondo della magistratura e di conseguenza sulle dinamiche politiche e sociali del Paese. Non rinnego ciò che ho fatto, dico solo che tutti quelli – colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni, molti dei quali tuttora al loro posto – che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo. Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c’entrano.» Inizia così il lungo racconto che Luca Palamara accetta di fare in un colloquio durato giorni. Lo avevo contattato a giugno 2020, poco dopo che sui giornali e in tv era deflagrato il «caso Palamara», clamoroso epilogo di un’indagine avviata su di lui due anni e mezzo prima, nel dicembre 2017, quando era membro del Consiglio superiore della magistratura dopo essere stato per quattro anni presidente dell’Associazione nazionale magistrati. L’indagine, all’inizio poco più di una soffiata su fatti privati marginali, riguardava la sua assidua frequentazione con Fabrizio Centofanti, un amico di vecchia data diventato poi imprenditore e finito sotto inchiesta per corruzione dopo avere scalato fino alla cima, partendo dalla bottega di pizzicaroli dei suoi genitori, salotti e poteri romani. Ma per un anno e mezzo, cioè fino alla vigilia dell’estate 2019, nonostante il clima di veleni e sospetti che lo avvolge, nessuno prova, se non a fermarlo, almeno a ridimensionarlo. Nulla accade e a Luca Palamara è permesso – già questa è un’anomalia – fare quello che dal 2007 ha sempre fatto a tempo pieno e con successo: imbastire accordi per le più importanti nomine della magistratura, essere l’anello di congiunzione tra il mondo giudiziario e quello della politica, tessere e agire apertamente con un metodo perfezionato nel tempo, il «metodo Palamara». Ma questa volta, a sua insaputa, nell’ombra si infila un raggio di luce telecomandato – vedremo come e da chi – che illumina e registra la sua vita privata, i suoi spostamenti, le sue parole e quelle di chi incontra. Il raggio si chiama trojan, è un virus informatico che i segugi che, pur a distanza di sicurezza, gli danno la caccia – la procura di Perugia in coordinamento con quella di Roma – iniettano, con un geniale e subdolo trucco nel cellulare, uno strumento che lui, essendo il centro di una vasta rete di relazioni, compulsa freneticamente giorno e notte senza risparmiarsi né censurarsi. Palamara quindi diventa trasparente, e con lui tutti i suoi interlocutori. Cosa che puntualmente accade anche la notte tra l’8 e il 9 maggio del 2019, poi nota come «notte dell’Hotel Champagne». Siamo a Roma, in una saletta riservata di un albergo di via Principe Amedeo, alle spalle della stazione Termini, usato come base d’appoggio da alcuni magistrati che arrivano da fuori città. Pochi minuti prima di mezzanotte, Palamara si incontra con cinque magistrati del Consiglio superiore della magistratura e Cosimo Ferri, già onorevole del Partito democratico e ora di Italia viva, ma soprattutto leader storico della corrente di destra della magistratura, Magistratura indipendente, con il quale Palamara – leader della corrente di centro Unità per la Costituzione – da anni si siede, a volte da socio altre da avversario, ai tavoli dove si gioca il Risiko delle nomine. Poco dopo si aggiunge Luca Lotti, deputato del Pd, già braccio destro e sottosegretario di Matteo Renzi prima e ministro dello Sport di Paolo Gentiloni poi, ma anche tra gli indagati eccellenti nell’inchiesta Consip (tangenti su appalti pubblici) partita da Napoli nel 2016 e poi approdata alla procura di Roma. E proprio la procura di Roma è il tema caldo di quella riunione notturna. I convitati devono infatti verificare per l’ultima volta se nel plenum del Csm avranno i voti necessari per pilotare il loro candidato, Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, su una delle poltrone più importanti delle istituzioni italiane. La poltrona, ambita e contesa, di procuratore capo di Roma, appena liberata da Giuseppe Pignatone, costretto a lasciare per raggiunti limiti di età dopo sette anni di potere incontrastato. Il Csm deve decidere a giorni, il tempo stringe e servono certezze. Ognuno dei partecipanti a quell’incontro mette le carte in tavola, cioè garantisce per sé ma anche per altri colleghi, grandi elettori a loro fedeli. Conta e riconta, a un certo punto il trojan capta la voce di Luca Lotti dire: «Si va su Viola, sì, ragazzi» secondo una frettolosa trascrizione fatta dagli uomini della Guardia di Finanza; «Si arriverà su Viola, sì ragazzi» stando alla perizia fonica disposta poi dal Csm. Che Lotti, cioè un politico indagato, abbia dettato la linea ai magistrati presenti o più semplicemente, come parrebbe dalla seconda versione, abbia preso atto dell’esito della loro conta, sta di fatto che pochi giorni dopo, il 23 maggio 2019, la Commissione per gli incarichi direttivi del Csm, con quattro voti su sei, propone al suo plenum, che si dovrà riunire di lì a poco, di nominare Marcello Viola procuratore di Roma.