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Allora, in primo luogo, ben tornato Roberto. Che effetto ti fa, dopo tanti anni, essere di nuovo al Corriere del Mezzogiorno, dove hai mosso i primi passi da giornalista e dove cominciasti a coltivare l’idea di scrivere «Gomorra»? Mi racconti quel Roberto Saviano che pochi forse conoscono? «Grazie Enzo. Beh, provo davvero molta emozione, manco da tanti anni. Tutto è iniziato qui, ricordo quando aspettavo accanto alla sua scrivania che Mirella Armiero, la responsabile della pagina culturale, tornasse dalle riunioni per raccontarle quello che osservavo in giro nei quartieri. Lei ascoltava incredula, però mi dava fiducia e, minuta dietro i suoi occhi chiari, difendeva il mio lavoro dalle insinuazioni e dalla diffidenza. Volevo che gli articoli fossero pubblicati in cultura, non in cronaca. Mi ricordo l’Osservatorio sulla Camorra , i primi articoli. Ero laureato da poco, stavo cominciando una ricerca con lo storico Francesco Barbagallo da cui ho molto imparato, autore di due libri fondamentali per conoscere la camorra ma sarebbe meglio dire per conoscere la storia del nostro Paese attraverso il potere criminale. Al Corriere del Mezzogiorno iniziai a proporre pezzi di ricerca e analisi, cercavo di sperimentare un nuovo approccio al tema oltre la cronaca giudiziaria, oltre l’inchiesta, disinteressato agli scoop. Insomma nasceva forse il mio genere di scrittura proprio da queste pagine... E ora rieccomi!». Conosco Roberto Saviano da un bel po’ di anni, anche se ci siamo incontrati poche volte. Il nostro rapporto si è cucito attraverso sms, mail, messaggi vocali. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti visto che la sua vita blindata rende molto complicato coltivare un’amicizia seguendo canoni che potremmo definire «normali». Credo che in tanti, troppi, dimentichino cosa significhi per un ragazzo di 27 anni — questa era la sua età quando fu pubblicato «Gomorra» e giunsero le prime minacce di morte — venire scaraventato da un giorno all’altro in un mondo fatto di paura (soprattutto per i suoi affetti più cari), prigionia (quando sei sotto scorta 24 ore su 24 perfino un gelato al bar diventa un miraggio meraviglioso) e solitudine (anche allevare un amore diventa impossibile). Lo scrittore, col tempo, ha metabolizzato la drammatica virata della sua esistenza anche se, per sopravvivere alle invidie e alla calunnie, si è dovuto costruire una corazza forgiata nel disincanto. Certo, in cambio ha ricevuto fama, agiatezza, incontri straordinari ma sono convinto che rinuncerebbe a tutto per riavere indietro i giorni spensierati di una gioventù svanita all’improvviso. Allora, Roberto: «Gomorra» viene alla luce nel 2006, in un’Italia profondamente diversa da quella attuale. Com’è cambiato il Sud in questi anni? Quella che un tempo era definita la «zona grigia» nel rapporto fra crimine organizzato e società civile sembra essersi allargata a dismisura fino a sbiadire la linea di demarcazione. È davvero così? «Il Mezzogiorno si è ulteriormente impoverito in questi anni, penalizzato da un combinato disposto micidiale di governi nazionali molto attenti alle esigenze della parte più ricca del Paese e di una classe dirigente di semianalfabeti opportunisti. L’impoverimento normalmente genera circoli viziosi e così anche il tessuto imprenditoriale finisce per sfilacciarsi e perdere di slancio e visione. In tutto questo le organizzazioni criminali continuano a macinare profitti: con i proventi del narcotraffico, al primo momento di difficoltà, potrebbero acquisire senza problemi anche le più grandi realtà economiche del territorio. E in questa fase le sofferenze sono destinate ad aumentare. Se dovessi descrivere attraverso un’immagine la situazione, direi che all’economia legale è rimasta solo la punta dell’iceberg. Se poi si va nelle zone interne e nel Sud profondo, la situazione è ancora più drammatica a causa dello spopolamento». delle aziende in crisi, ma tra un paio di mesi scadrà il blocco dei licenziamenti e si calcola che circa un milione e mezzo di persone perderanno l’occupazione, senza contare il tracollo dei lavoratori in nero e dei precari. A tutto ciò si aggiunge la pioggia di soldi che il Recovery Fund farà cadere sul Mezzogiorno e che, allo stato dei fatti, non sappiamo in che modo verranno investiti e con quali controlli. «È una situazione che fa paura, inutile girarci attorno. La classe politica meridionale non dà alcuna garanzia sulla capacità di un utilizzo virtuoso di questo mare di denaro. Non credo di andare lontano dal vero se dico che gli errori dei prossimi anni potremmo pagarli per i quaranta successivi (come è accaduto con il terremoto dell’Irpinia). Basta leggere l’elenco degli eletti alle ultime elezioni regionali: tolte pochissime eccezioni, sono tutti questuanti, più o meno pericolosi, alla ricerca di un posto al sole, più o meno grande. Questa politica — ma direi l’intera borghesia meridionale — non è un anticorpo, rischia piuttosto di essere il virus. La crisi la pagheranno (in verità la stanno già pagando) i più poveri, gli stranieri senza diritti e quella grande parte di classe media che smetterà di esserlo». Su questo giornale abbiamo raccontato quanto, particolarmente nel Mezzogiorno, si sia lacerato il dialogo lasciando campo aperto a una guerra fra tribù dove ciascun gruppo difende il proprio territorio e non esita a scaraventare fango su quello che considera un nemico, non più un possibile interlocutore che ha opinioni diverse. Il mito della società civile appare tramontato, la borghesia si è rinchiusa nei salotti e si fa strada una parcellizzazione degli interessi che ha soppiantato il bene comune. La conseguenza è lo svilimento del principio di legalità e dell’agire politico. Sei d’accordo? «È una dinamica globale, a dire il vero, che nei territori economicamente depressi si acuisce. Bisognerebbe poi chiedersi cosa resta della borghesia meridionale, considerato che nelle classi sociali medio-alte l’emigrazione ha completamente interrotto il ricambio generazionale. Chi ha la possibilità economica per farlo, prepara il terreno a questo esilio volontario sin dal momento dell’Università. Per restare devi potertelo permettere. Sulla vita dei salotti napoletani ne so davvero poco: immagino mi disprezzino per tutte le cose che ho raccontato; per avergli strappato via il velo di ipocrisia nel quale si erano avvolti. Il notabilato meridionale non esiste più, e quello che resta è sicuramente lontano dai centri del potere nazionale. La parte più vitale, da tutti i punti di vista, è senz’altro quella più povera, marginale e che, fortunatamente, si tiene a debita distanza dai salotti. Il resto mi pare solo in fila per una rampa di lancio orientata a Nord». A proposito di politica, giunge al termine l’era de Magistris che, con un calcolo di esclusivo vantaggio personale, ha deciso di candidarsi a presidente della Calabria rimanendo sindaco di Napoli fino al termine del mandato. In questi dieci anni, mentre impazzava la retorica di un’amministrazione «rivoluzionaria» che difendeva gli ultimi, è stato mandato in malora anche il più elementare tra i servizi pubblici (dai trasporti al welfare), ossia proprio quella rete che garantisce soprattutto agli «ultimi» la dignità di cittadini. Su queste pagine, per tale motivo, lo scrittore Massimiliano Virgilio ha definito Napoli la città più classista d’Italia. Ha esagerato? «Stimo molto Massimiliano Virgilio e credo che abbia ragione. Napoli a dispetto di come ama descriversi, e a dispetto anche di come viene superficialmente percepita, è una città profondamente classista: quando i servizi sono al collasso è evidente che chi ha risorse per rivolgersi al privato ha un vantaggio competitivo su tutti gli altri. De Magistris è un politico con l’etichetta dell’ex magistrato. Si candida in Calabria, senza avere la minima possibilità di essere eletto, solo per dare fastidio al Pd, nella speranza di lucrare qualcosa su Napoli per lui e il suo cerchio ristrettissimo, dato che in dieci anni ha messo in fuga quasi tutti quelli che gli si erano avvicinati al principio. De Magistris è un personaggio che probabilmente entrerà nello show-business nei prossimi anni, quindi non ha più senso parlarne da un punto di vista politico». In primavera, Covid permettendo, Napoli dovrebbe andare al voto. In campo, per ora, c’è soltanto Alessandra Clemente, candidata di bandiera che fa riferimento a de Magistris. Gli schieramenti tradizionali faticano a trovare candidature solide perché alle prese con gli equilibri nazionali e intanto si fanno strada due soluzioni «civiche»: a sinistra l’ex sindaco e governatore Antonio Bassolino, a destra Catello Maresca che continua a fare il magistrato nello stesso distretto in cui dovrebbe candidarsi. Possibile che la terza città d’Italia, capitale del Sud, continui a essere ostaggio delle trattative nazionali?