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Come già detto precedentemente presumiamo che Nicola Malinconico, pittore napoletano vissuto tra il 1663 e il 1727, noto allievo di Luca Giordano, nel 1721 circa, una volta aggiunto il transetto, s’accingesse a dipingere le due splendide tele che attualmente ne decorano il soffitto: Lo Sposalizio mistico di Santa Caterina d’Alessandria e II Sogno di San Giuseppe. Il Malinconico allora era già presente ad Avellino per la realizzazione delle due lunette - la Nascita di Maria e la Presentazione al tempio- nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie ai Cappuccini e della tela sull’altare della Chiesa di SAN Anna (La Madonna del Rifugio tra San Francesco, San Antonio da Padova e le anime purganti). Occorre avvertire che non certo per caso s'incontrarono nella stessa Chiesa di Costantinopoli ad Avellino i tre artisti Cosimo Fanzago, bergamasco, Giovanni Chiappari, bolognese e Nicola Malinconico: quest'ultimo che svolse buona parte della sua attività a Bergamo e a Bologna, le città natali rispettivamente dei due artisti citati. Il Malinconico a Bologna attinse alla pittura di Guido Reni e, più in generale, poi al classicismo bolognese fomatosi a Napoli tramite Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione e Bernardo Cavallino. Supponiamo che egli fosse stato introdotto nella Chiesa di Costantinopoli ad Avellino dall'artista bergamasco Cosimo Fanzago, come lui molto legato a Luca Giordano. Il Malinconico, infatti, fu descritto dagli storici come seguace di Luca Giordano, tanto da essere chiamato a sostituirlo, quando questi andò in Spagna, per realizzare la pala del Martirio di Sant'Alessandro nel Duomo di Bergamo nel 1693. Prima che terminasse questa opera, il 21 gennaio 1694, gli vennero commissionate dieci tele per la chiesa di Santa Maria Maggiore sempre a Bergamo, tra cui una Madonna Immacolata e un Sogno di San Giuseppe. .. Nelle due tele incastonate nel soffitto del transetto nella Chiesa di Costantinopoli ad Avellino Nicola Malinconico esprime il meglio della sua arte seicentesca, già aperta alle novità settecentesche del Solimena, ed ormai già abbastanza lontana dal giordanismo che invece ancora riaffiora nelle due pur magnifiche lunette, precedenti, che si ammirano nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Avellino (La Nascita di Maria e la Presentazione al tempio). Lo Sposalizio mistico di Santa Caterina traduce il culto di questa santa che fu molto sentito nella chiesa di Costantinopoli ad Avellino, dove, infatti, alla Santa è dedicato anche il terzo altare a sinistra, nel braccio del transetto, di proprietà del Monte di Pietà. Tale altare è tra i più antichi della chiesa, essendo citato dal Vescovo di Venosa Pierbenedetti nella visita pastorale effettuata ad Avellino nel 1630. Il dipinto rappresenta le nozze definite “mistiche” in quanto esse sono solo di natura spirituale-religiosa. Santa Caterina assume nel dipinto l’aspetto di una principessa, inginocchiata, intenta a ricevere all’anulare l’anello che il Bambino Gesù le sta infilando. Il Bambino è seduto sulle ginocchia della Madonna, secondo la più classica iconografia della «maestà in trono». Ulteriori approfondimenti sul soffitto: Nella Chiesa di Costantinopoli, capolavoro dell'arte barocca nel capoluogo irpino, la tradizione vuole che all’origine il soffitto della navata centrale fosse decorato dal celebre pennello di Francesco Guarini. Nel 1709, infatti, il De Franchi scrive che nella chiesa vi era nobi l soffitta dipinta dal Guarini, ma ora vedesi in forma diversa, distrutta affatto la prima col tremuoto del 1688”. Ma non dice se e da chi fosse stata decorato il nuovo soffitto. Non cita il nome né di Francesco Maria Russo né di Michele Ricciardi. E, ciò che qui più importa osservare, non cita della chiesa altri dipinti, oltre la decorazione del Guarini. ll che ci induce a credere che probabilmente fino al 1709 non c’era ancora il transetto con le due attuali tele nel suo soffitto. E’ presumibile che successivamente, nel 1721, mentre la confraternita del Monte dei Pegni vendeva l’altare seicentesco del Fanzago e lo sostituiva con uno nuovo del maestro bolognese Giovanni Chiappari, fosse ricostruito anche il soffitto centrale danneggiato dai continui terremoti del 1688, 1694, 1702. Ed effettivamente - come qualche studioso ha ipotizzato- Francesco Maria Russo avrebbe potuto eseguire un nuovo dipinto (che sostituiva quello crollato del presunto Guarini) nel soffitto nella navata centrale. Neppure è poi tanto lontana l'ipotesi che a decorare il soffitto della navata centrale possa essere stato Nicola Maria Rossi, che realizzò affreschi nel Palazzo Caracciolo di Avellino probabilmente oscurando gli originali seicenteschi di Belisario Corenzio e Giacomo del Po. Anche al Palazzo Reale di Napoli il Rossi decorò gli Appartamenti della regina mentre, contemporaneamente, Francesco Solimena affrescava quelli del Re. Presumiamo che in seguito, quando a causa del terremoto del 1732 crollò di nuovo il soffitto della navata centrale, nel soffitto ricostruito fosse collocato un nuovo dipinto che sostituiva quello di Francesco Maria Russo (o di Nicola Maria Rossi). Tale dipinto è quello che attualmente si osserva, raffigurante la Vergine di Costantinopoli col Bambino, contornata dai Santi Andrea, Carlo Borromeo, Giuseppe, Caterina d'Alessandria, Lucia, Gennaro, Modestino e Sabino Vescovi di Avellino. Esso è di Michele Ricciardi. Va escluso assolutamente – per mancanza di riscontri anche solo stilistici- che l’attuale dipinto nel soffitto possa essere opera di Antonio Vecchione, come pur qualche storico locale recentemente ha supposto. La tela, anche se è ormai quasi completamente illegibile ed irrimediabilmente consunta dal tempo e dai continui restauri subiti, si può assegnare con certezza a Michele Ricciardi, perché reca alla base il monogramma dell’artista, AMR (iniziali sovrapposte di Abate Michele Ricciardi) e perché lo stile che esso rivela è inequivocabilmente quello del noto artista molto operoso in Avellino e nella provincia. Si tratta di uno stile che gli avellinesi e gli irpini hanno imparato a conoscere ed apprezzare bene riscontrandolo in tante opere dell’autore disseminate nelle chiese della città e nella provincia irpina, per esempio, nel soffitto della Chiesa del Carmine dell’Orfanotrofio di Avellino, nei soffitti delle Chiese delle Oblate e della SSAN Trinità nella stessa città, nella Chiesa delle Clarisse a Santa Lucia di Serino. Il mancato riconoscimento da parte degli antichi storici locali Zigarelli e Muscetta della decorazione del soffitto di Costantinopoli al Ricciardi si spiegherebbe, a nostro avviso, in ragione del fatto che il pittore ai tempi in cui essi scrivono era ancora poco noto, essendo stato riscoperto alla luce della conoscenza scientifica solo a partire dagli anni settanta del Novecento, grazie agli studi di Ferdinando Bologna e di Maria Teresa Penta. Nel caso specifico di Muscetta, riteniamo che egli più probabilmente avesse preferito fidarsi totalmente della testimonianza offerta da Giovanni Zigarelli che menzionava della chiesa “le dipinture del Guarini” o di Francesco Maria Russo, ma non citava il Ricciardi. Egli interpretava probabilmente, in modo errato, il monogramma del Ricciardi, identificando nella M il nome Maria (secondo nome di Francesco Russo) e nella R di Ricciardi l’iniziale di Russo. Sicché la decorazione del soffitto della navata centrale, per diabolica perseveranza, sarebbe passata poi alla storia fino ed oltre al Muscetta come opera di Francesco Russo. L’errore di attribuzione al Russo della decorazione del soffitto da parte di Giovanni Zigarelli del resto, a fronte dell’allora ancora poco noto pittore Michele Ricciardi, montava l’onda lunga della fama acquisita dal pittore Francesco Maria Russo anche in Irpinia a partire dal 1749 quando dipinse la Gloria del Paradiso nel soffitto della famosa Cappella Sansevero a Napoli. Allo Zigarelli evidentemente riusciva più agevole assegnare il dipinto di Costantinopoli ad un ben più noto Francesco Maria Russo anziché all’allor ancor poco conosciuto Michele Ricciardi. Sembra che per l'affresco della Cappella Sansevero siano stati utilizzati dei colori preparati appositamente da Raimondo di Sangro: grazie alla pittura definita «oloidrica», i colori appaiono ancora vivi e intensi dopo più di due secoli e mezzo pur non essendo stati mai restaurati.