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La liturgia cristiana e la fede cristiana sono permeate da questo carattere fondamentale della gioia del compimento. La Parola si è fatta realtà. L’eccitante sta però nel fatto, che questa vittoria dì Jahvè, l'adorazione da parte, dei pagani, avviene tramite la Croce, nell'umiliazione estrema. Per chiarire questo, l’inno spalanca la prospettiva universaleantropologica che qui ci interessa. L’uomo vuole essere uguale a Dio — dice l’inno al versetto 6, alludendo a una versione del mito di Adamo cui accenna Gb 15,8. Vuole questo e, infine, non ha torto, ma lo vuole nella maniera di Prometeo, ossia arrogandosi da sé l’uguaglianza con Dio e impossessandosene con la forza. Tuttavia l’uomo non è Dio; proclamandosi Dio, egli contraddice alla verità, per cui questo esperimento si conclude inevitabilmente nel nulla dell’illusione. Il vero Uomo-Dio si comporta in modo esattamente opposto: egli è Figlio’, il che significa che egli è interamente debitore. In realtà, la Croce non è che l’estrema radicalizzazione del gesto filiale. Non è dall’atteggiamento di Prometeo, bensì dall’obbedienza sulla croce che nasce la divinità dell'uomo. L’uomo può diventare «Dio », ma non autoproclamandosi tale, bensì soltanto facendosi « figlio ». Là, nel gesto filiale di Gesù e non altrimenti nasce il « regno di Dio ». Per cui i primi sono gli ultimi e gli ultimi i primi; sono chiamati « beati » coloro che rappresentano in sé la croce della vita e insieme dimostrano la propria figliolanza; vengono esaltati i piccoli e tutti sono esortati a farsi bambini. Teresa di Lisieux, nella sua teologia dell’infanzia, ha riscoperto questo mistero della figliolanza: dove viene assunta la forma di figlio, là si crea uguaglianza con Dio, perché Dio stesso c Figlio e come Figlio, uomo. La risposta alla domanda sul regno è quindi il Figlio. In lui è eliminata pure l’ineliminabile diastasi tra, il « già » e il « non ancora »: in lui la morte .e la vita, la distruzione e l’essere sono tutt’uno. La croce è la graffa che chiude la diastasi. Se la risposta alla domanda sul regno di Dio è il Figlio, va da sé, che il messaggio di Gesù debba opporsi decisamente a un’escatologia delle situazioni; non si deve procedere dalle situazioni, bensì dalla persona. Per cui si comprende anche che non possiamo ottenere la liberazione soddisfacendo i nostri egoismi, come s’illude la nostra tacita escatologia « privata ». Essa non può venirci dall’appagamento dell’egoismo, ma esclusivamente dalla conversione, dall’imboccare la via in senso inverso, ossia dall’abbandono di qualsiasi egoismo. Motivo per cui la vera escatologia dev’essere universalistica e deve coinvolgere tutti quanti. Ora si comprende pure che il tempo dei pagani che precede la fine non è un arbitrio positivistico, bensì un’intrinseca necessità che deriva dall’essenza stessa della salvezza; questa dev’essere voluta per tutti e a tutti dev’essere offerta. Da ciò consegue allora pure che la salvezza non può venire all’uomo semplicemente dall’esterno, come se gli si consegnasse una somma di denaro, ma che egli la può ottenere solamente come soggetto. Il che ci fa comprendere nuovamente la diastasi tra la fine e la svolta. L’uomo con il suo sì e no è, nel disegno di Dio, soggetto, per cui riceve il suo proprio tempo. Ma ripetiamolo: egli è soggetto non come costruttore del regno di Dio, ma è soggetto a motivo del suo rapporto filiale con il Tu di Dio. L’essere Dio, l’« emanciparsi » per il regno di Dio, che elimina ogni estraneazione e ogni schiavitù, non è qualcosa che si possa « produrre », ma è un dono, analogamente a come un vero amore per sua natura non può che essere un dono. Parimenti il regno di Dio è « speranza ». In un laboratorio (cui Ernst Bloch paragona il mondo) non vi è nulla da sperare. Speranza esiste solamente là dove esiste amore, e 1.’uomo può sperare, perché nel Cristo crocifisso l’amore si è .manifestato oltre la morte.