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Il che non significa affatto che l’annunzio del regno di Dio venga considerato come praticamente irrilevante e quindi trasformato tacitamente in una giustificazione della situazione esistente. Per la politica, il regno di Dio non costituisce, una norma politica, ma una norma morale pertanto la politica è assoggettata a norme morali, anche se la morale non è di per sé una politica e, viceversa, la politica non è di per sé una morale. Con altre parole: il messaggio sul regno di Dio ha importanza per la politica non in quanto è escatologia, ma in quanto è etica politica. Infatti, il problema di una politica autenticamente cristiana non è un problema che riguarda l’escatologia, bensì la teologia morale. Su questo piano, il messaggio sul regno di Dio ha da dire cose determinanti, poiché riguarda proprio ciò che non è escatologico. La distinzione tra escatologia e politica rappresenta uno dei compiti basilari della teologia cristiana. Proprio con questa distinzione essa si pone nella sequela di Gesù e della sua escatologia che si oppone allo zelotismo. Solo così si potrà salvare il contenuto di speranza dell’escatologia e preservarlo dall’essere trasformato nel contenuto d’orrore d’un « Arcipelago Gulag » e, al contrario, solo così si potrà salvare la morale nella politica e insieme il suo humanum, poiché laddove l’escatologia e la politica collimano, la morale si sgretola, perché si identifica con la domanda circa i metodi più opportuni con cui raggiungere l’obiettivo, che resta quindi l’unica norma (così p. es. in: S. Silva, Glaube und Politik: Herausforderung Lateinamerikas. Von der christlich inspirierten Par tei zur Theologie der Befreiung, Francoforte 1973, pp. 192- 288). 2. Bilancio preliminare ... Che cosa rimane dopo tutto questo? Ebbene, rimane anzitutto il proponimento di affrontare volta per volta le varie teorie moderne con maggiore pazienza e calma, di inserirle nella storia entro la cornice dell’autocritica e della ragione storica e di interpretarle nell’insieme d’un movimento storico. A questo proposito dovrebbe accompagnarsi la modestia di non pretendere di scoprire soltanto ora il vero cristianesimo per via della propria genialità. Da questa modestia potrebbe poi emergere una virtù maggiore, ossia l’umiltà di riconoscere la realtà, di non inventare una realtà cristiana, ma di cercarla nella comunione sacramentale della fede di tutti i tempi. Anche per quanto concerne i contenuti potrebbe aversi avuto una chiarificazione. Per continuare e approfondire le nostre riflessioni precedenti, vorremmo ora tornare ancora una volta al pensiero fondamentale di O. Cullmann, secondo il quale un elemento determinante del messaggio di Gesù è la diastasi tra il «centro» e la «fine»: la rivoluzione cosmica e lìirruzione del regno di Dio non coincidono più. Questa diastasi è la causa di tutta la nostra difficoltà, il motivo della nostra impazienza e della nostra perplessità, anzi, ci è di vero e proprio scandalo; ma, un momento!, non ha forse voluto Cristo stesso essere uno « scandalo », qualcosa che ci fa inciampare, perché ci accorgiamo di ciò che conta e scopriamo poi nello scandalo, nella pietra in cui inciampiamo, la pietra d’angolo? Che cosa pensare dunque di questa diastasi, di questo strano rinvio del Vie tory Day, che ci costringe a dire che l’essenziale è già avvenuto, ma ci impedisce di fornirne la prova? È certo comunque: questo spostamento significa molto più che un rinvio puramente cronologico, una più differenziata suddivisione del tempo, il che ci potrebbe dire poco. La diastasi tra « centro » e « fine » cambia radicalmente l’immagine e la realtà di quanto è « salvezza », o meglio, ci obbliga a prendere coscienza della piena dimensione della perdizione. Gli ebrei del tempo di Gesù avevano atteso la salvezza da un cambiamento delle condizioni del cosmo intero: la salvezza significava per loro una sorta di « paese di bengodi » su basi religiose. Le tentazioni di Gesù, quali ci sono riferite in Matteo e in Luca, rispecchiano esattamente queste aspettative: pane dal deserto, segni miracolosi sensazionali, un potere politico assicurato sul mondo intero, II Messia delle tentazioni nel deserto — il Messia delle aspettative umane — sarebbe dunque un Messia che garantisce i consumi e il potere. Ognuno però che rifletta su queste connessioni, comprenderà che qui gli « ebrei » simboleggiano l’umanità in genere: se noi dovessimo programmare la liberazione nostra e del mondo non avremmo obiettivi differenti da questi. La propaganda politica si regge infatti su questo tipo di aspettative. La storia della moderna fede nel progresso e la sua trasformazione nel messianismo marxista dimostrano tuttavia che non ci si può fermare qui. Sebbene per intima necessità la libertà e l’eguaglianza contrastino tra di loro, nessuna di esse può soddisfare senza l’altra; il consumismo sfrenato evidenzia ancor maggiormente la tragica estraneazione tra il mondo e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo e si muta quindi in maledizione e distruzione. Motivo per cui il programma si fa automaticamente più radicale e esasperato, al punto da esigere una emancipazione che mira a divinizzare l’uomo. Il che però significa insieme che la fede nel progresso debba volgersi necessariamente in una dialettica negativa: l’emancipazione nel senso descritto presuppone la distruzione di quanto finora è esistito. Tutto questo è perfettamente logico, per cui nei cent’anni passati, l’umanità, costretta dalla logica, ha aggiunto un anello dopo l’altro a questa catena. L’errore di tutta questa costruzione consiste soltanto nel fatto che l’uomo è sì capace di distruggere, ma che gli manca la forza per far sorgere dalla distruzione l’emancipazione. È quindi chiaro, che l’uomo, per farsi uguale a Dio, debba tendere verso un solo obiettivo: alla liberazione dalle coercizioni del mondo e della storia. Contemporaneamente però egli si avvede che questo obiettivo costituisce per lui un’impossibilità. Che cosa rimane? L’uomo, questo essere assurdo? A questo punto potremmo nuovamente riferirci alla figura di Gesù Cristo. Infatti, il regno di Dio da lui promesso non consiste in mutate condizioni terrene (il che, secondo le nostre esperienze, significherebbe pertanto ben poco), ma esso esiste dentro l’uomo, il quale è stato toccato dal dito di Dio e accetta di diventare figlio di Dio (Le 6, 35; Mt 5. 9-45). Il che —. e anche questo è chiaro — può avvenire soltanto attraverso la morte. Per cui la pienezza del « regno di Dio », della « salvezza », è necessariamente connessa alla morte. La somiglianza delle esperienze, in cui ci ha spinto il nostro secolo, con il modello base del messaggio neotestamentario, ha in sé, per colui che se ne avveda, qualcosa di eccitante, ma insieme di terrificante, perché questa somiglianza comporta una contraddizione fondamentale per l’orientamento spirituale. L’uomo vuole l’emancipazione totale, cioè una libertà illimitata e un’uguaglianza in cui ogni estraneazione è eliminata ed è realizzata la completa unità con se medesimo, con la sua natura e con l’umanità; il che vuol dire: egli vuole la divinità. In ciò il Nuovo Testamento gli dà ragione, ma l’uomo la cerca, questa divinità, in una via sbagliata. Esiste un testo che riflette questi nessi con una visione che riassume l’intera teologia biblica: l'inno al Cristo, in Fi 2,5-11. Sentiamo ora anzitutto il testo: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre ». Inserito in questi versetti troviamo un giuramento di Dio, che leggiamo in Is 45,23: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua. Si dirà: "Solo nel Signore si trovano salvezza e protezione” » (altra traduzione: vittoria e potenza). In queste parole, che provengono dal tempo della fine dell’esilio, si avverte la gioia vittoriosa di Israele che torna dalla prigionia e sperimenta il trionfo del suo Dio, il quale si vale dei potenti re — Nabucodonosor e Ciro — come suoi servi e dimostra tanto con l’esilio quanto con la fine dell’esilio, con la vittoria e la caduta di Babilonia, di essere il vero Signore della storia, il Re sopra tutti i re della terra: essi tutti sono al suo servizio. Nonostante l’esperienza del compimento, il versetto è tuttavia formulato al futuro: i pagani ancora non sanno di non eseguire i propri piani, ma di servire Jahvè. L’ora in cui confesseranno il suo Nome non è ancora venuta. Nella Lettera ai Filippesi, il futuro d’allora è stato traslato nel presente. I cristiani sperimentano la inaudita gioia che il futuro è diventato presente, poiché ora avviene l’inimmaginabile: i pagani piegano effettivamente il ginocchio dinanzi a Jahvè nella figura di Gesù; essi confessano in lui il Dio del mondo intero.