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Purtuttavia va sottolineato anche l’altro lato. Sebbene lo spazio vuoto, creato dal divario tra lo schema e la realtà, attenda di riempirsi progressivamente di realtà, ciò non significa però che la parola stessa sia priva di contenuto e venga lasciata all'arbitrio, come avviene in quelle teologie che fanno della « situazione » la fonte principale e l’istanza normativa del cristianesimo. Per l’angusto sentiero tra l’arcaismo e il modernismo passano le orme dell’autentica comprensione della parola. Procedendo dal Cristo crocifisso e risorto, essa ci indica chiaramente una via certa, sufficientemente larga per accogliere l’intera realtà, ma insieme univoca abbastanza da costituire per quest’ultima un criterio di giudizio" Sotto un certo aspetto nella storia della Chiesa si perpetua quindi ciò che di fondamentale è avvenuto al tempo di Gesù stesso, poiché la differenza tra schema e realtà, che si incontra qui, ha la sua forma tipica nella differenza . tra la parola dell’Antico Testamento e la realtà storica di Gesù Cristo. Nelle parole dell’Antico - Testamento, le quali esprimono l’esperienza religiosa di Israele con la parola di Dio, è preparata la storia di Gesù, del Verbo di Dio vivente in questo mondo. Per- tanto solamente sulla base di questa parabola la figura di' Gesù, e l’intera sua esistenza diventano teologicamente intelligibili Ma per quanto la parola l’avesse interpretato in anticipo, sarà solamente nella figura reale di Colui che è venuto che si rivelerà ciò che nella parola era rimasto nascosto e che neppure sul piano puramente storico potrebbe essere ricostruita in base a essa. La tensione tra la parola antica e la realtà nuova rimane tuttavia una tensione tipica delle fede cristiana; la realtà nascosta di Dio diviene intelligibile sempre soltanto attraverso questa tensione. Da qui il motivo per cui è insensato voler tentare di stabilire una cronologia della « de-escatologizzazione » o della « ri- escatologizzazione »: le esperienze degli uomini con la parola e con il tempo non avvengono in linea retta. Ma ora comprendiamo pure meglio il perché è necessario che esista la differenza tra le tradizioni evangeliche e perché esse restino ciò nondimeno un’unità. Qui si evidenzia definitivamente che l’unità della fede non può poggiare su una semplice ricostruzione di quanto si presume originale; essa si fonda sull’unità soggettiva della Chiesa credente, la quale con quell’unica Parola garantisce e concilia le diverse esperienze (cfr. CTI, Pluralismo. Unità della fede e pluralismo teologico, Dehoniane, Bologna, 1974, in particolare pp. 21-28 e 36-42). Con queste premesse poniamo ora, per concludere, la domanda, che cosa rimanga delle nostre precedenti riflessioni. Possiamo costatare in breve: rimane che con molteplici parabole Gesù ha annunziato il messaggio del regno di Dio come una realtà contemporaneamente presente e futura. Rimane, che la Chiesa nascente era conscia di serbare fedeltà a questo messaggio iniziale annunziando Gesù come Colui che opera nello spirito e, quindi, come la forma presente del regno. Rimane questo, che la cristianità, guardando al Risorto, sapeva di un arrivo già avvenuto, sapeva dunque di non predicare solamente .una teologia della speranza, di non vivere più del solo sguardo al futuro, ma di richiamare una realtà in cui la promessa si era già trasformato in presente. Tuttavia proprio questo presente è insieme speranza: esso porta in sé il futuro. II che, traslato nell'ambito spirituale, significa che i credenti conoscevano, da un lato, la gioia, ma che, dall'altro lato, subivano gli assalti della tribolazione; significa inoltre che sapevano il Signore vicino, ma sapevano pure che il Signore ha il suo proprio tempo; che, perché egli giunga, il tempo dei popoli dovrà essere compiuto. Essi stessi vivono in questo tempo dei popoli, il quale è tanto il tempo dell’oppressione di Dio in questo mondo, quanto il tempo del chicco di grano che fruttifica per il mondo intero. Tutto questo significa, infine, che il divario tra lo schema e la realtà indica il luogo esistenziale del cristiano oggi come allora. § 3. Parola e realtà nella visuale del presente ... La tensione tra la parola-schema e la realtà, tensione che abbiamo riconosciuto poc’anzi essere la caratteristica necessaria del discorso escatologico, può essere sopportata fintanto che la Parola è garantita dalla Chiesa, ossia fin tanto che la Chiesa mantiene la propria integrità quale mediatrice unificante tra la Parola e la realtà. La tensione si fa invece problematica o addirittura insopportabile, quando la Chiesa divenga discutibile quale Luogo della Parola oppure si spacchi, specie se contemporaneamente il tempo mostra le sue crepe: in questo caso, la Parola, ormai spoglia, perderà il suo significato dovrà essere radicalmente rimessa in relazione con ciò che è la nuova realtà. È questa la situazione che, dopo il letargo del 19° secolo, ha provocato nel 20° secolo uno straordinario fervore escatologico. Nei vari modelli di interpretazione che ne sono emersi, si rispecchiano le esperienze del presente con la realtà della Parola, esperienze di cui occorre tener conto nei tentativi di interpretare la Parola, anche se non potranno trovare avallo fintanto che ne risponda la sola autorità del singolo teologo: se non è la Chiesa a farsi garante della stabilità della Parola e quindi anche del suo futuro, tutte le spiegazioni resteranno opinioni prive di autorità. Ciò nondimeno il confronto critico delle varie tesi potrà aiutare a spianare la via a una nuova intelligenza della Parola. 1. Il panorama delle soluzioni ... a) KARL BARTH ... Sebbene Johannes Weiss e Albert Schweitzer avessero proclamato nella loro qualità di storici il carattere esplicitamente escatologico del messaggio di Gesù, non avevano tuttavia saputo darne una definizione sistematica, per cui praticamente hanno seguito, nonostante tutto, le vie della teologia liberale. Una svolta importante verrà qui soltanto dal primo Barth. Il suo Römerbrief equivale a uno squillo di tromba che inaugura una nuova fase della teologia: « Un cristianesimo che non sia interamente e senza riserve escatologia, non ha assolutamente nulla in comune con Cristo » (2a ed. 1922, p. 298). Barth si allaccia qui al pensiero formulato precedentemente da E. Troeltsch, cioè che le cose ultime non hanno in realtà alcun rapporto con il tempo. Locuzioni quali « fine del tempo », « dopo il tempo » non possono considerarsi che termini ausiliari della nostra mentalità condizionata da ciò che è temporale, mentre in realtà l’eternità, quale alternativa del tempo, non è con questo commensurabile: ogni onda del mare dei tempi approda alla spiaggia dell’eternità (cfr. Braun, 116). Per il primo Barth, « attendere la Parusia » non significa quindi mettere in conto un evento temporale che si verificherà non si sa quando, bensì significa qualcosa che per ognuno di noi è di estrema attualità: dirigere lo sguardo verso il limite che incontra la mia esistenza personale e, inoltre « prendere la nostra concreta situazione esistenziale tanto sul serio quanto lo è realmente » (Römerbrief, 240); « resurrezione è eternità » (234); « Le immagini degli ultimi giorni simboleggiano nel senso metafisico quanto è all’estremo limite, ossia l’as- soluta trascendenza di Dio » (243; cfr. Braun, 114). Intendere il cristianesimo come escatologico, e unicamente così, vuol dire, sullo sfondo di simili convinzioni filosofiche, di non concepirlo affatto come una dottrina o un’istituzione, bensì come un atto di scelta, come un abbandonarci al modo d’essere totalmente diverso di Dio. Qui « escatologico » non è più un concetto temporale, bensì un concetto esistenziale, che interpreta il cristianesimo come un atto sempre nuovo d’incontro. La gravità impegnativa di simili affermazioni, che ha potuto scuotere un’intera generazione, non ha pertanto avuto un riscontro duraturo, perché l’attualismo informale non può soddisfare a lungo andare. Lo sviluppo ha quindi dovuto proseguire, conducendo da un lato dal Barth del primo periodo al Barth dell’ultimo periodo, alla dogmatica ecclesiale, che intende essere una teologia radicalmente cristocentrica (cfr. H. Kiing, 26) — un cammino da cui emerge nuovamente la logica interiore dello sviluppo neotestamentario — e portando, dall’altro lato, alla sistematizzazione della tesi esistenziale-filosofico-escatologica di Rudolf Bultmann. b) RUDOLF BULTMANN ... Per Bultmann, essere cristiano non significa altro che « esistere escatologicamente ». Il termine « escatologico » perde però qui ogni componente temporale. Esso rappresenta l’opposto dello « schema soggetto-oggetto », della realtà concretamente presente, che possiamo porci di fronte e analizzare come oggetto. Questa realtà « oggettiva » non è l’essenziale. L’uomo che ne cada schiavo, che la consideri l’unica realtà in assoluto, perde l'essenziale. Ciò che per l’uomo è l’essenziale non si trova nelle cose che possiamo porci davanti, bensì nell'evento dell'incontro.. L'essere dell’uomo è per sua natura un « poter essere » e diviene nella scelta. Ma questa scelta l’uomo non se la propone semplicemente da sé; essa diviene possibile nell'incontro con il Tu. Su questo sfondo, l’importanza del Cristo può essere spiegata con il fatto che egli stesso è « l'evento escatologico ». Essere cristiano vuol quindi dire: penetrare in questo incontro fino all’essenziale. È proprio questo il contenuto dell’escatologia, poiché significa spezzare il circolo soggetto-oggetto, evadere dal tempo, significa la fine del tempo, l’astrazione radicale dal mondo.