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Mt 24,22 e Mc 13,20 vi aggiungono una parte, mancante in Luca, sulla fecondità delle tribolazioni temporali. Entrambi, Mt 24, 23 s e Mc 13, 21-23, contengono inoltre un avvertimento, anche esso assente in Luca, di guardarsi da falsi annunzi della Parusia, da pseudoprofeti e da falsi miracoli. Il solo Mt 24, 26-28 porta pure un testo sulla repentinità con cui avverrà la « Parusia del Figlio dell'uomo ». A questo riguardo, va fatto notare che di tutti i vangeli soltanto quello di Matteo conosce il termine « Parusia ». Mt 24,29-31; Mc 13,24-27; Lc 21,25-28 aggiungono alla profezia sulla distruzione di Gerusalemme il discorso sul ritorno del Figlio dell’uomo. Determinante per il nostro problema è pertanto la questione in quale modo le due parti vengano messe in rapporto tra di loro, in quale modo dunque la distruzione della Città santa, attesa come prossima, venga coordinata temporalmente alla Parusia. Il modo di questo coordinamento è caratteristico per l’ottica differenziata dei tre evangelisti. Luca lo compie in un versetto soltanto suo (21,24 è ancora nella cornice delle profezie su Gerusalemme: « Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusa- lemme sarà calpestata dai pagani (Zc 12, 3; SI 79, 1; Is 63,18; Dn 9,26; 1 Mcc 3,45.51) finché i tempi dei pagani siano compiuti » (Dn 12,7; Tob 14,5). Con poche* parole si spalanca un vasto orizzonte : la fine di Gerusalemme non è la fine del mondo- bensì l'inizio di un nuovo periodo della storia della salvezza. Essa significa l’inizio della diaspora d’Israele, il tempo dei pagani. E questa ora è suonata adesso. Il presente non si muove verso la Parusia, ma verso il tempo dei pa- gani, nel quale, dopo la dispersione d’Israele, la Parola si metterà in cammino verso i popoli. Non esiste un’attesa della fine imminente del mondo. In Marco, al contrario, tra i due avvenimenti — tra la distruzione di Gerusalemme e la fine del mondo — sembra stabilita una diretta relazione temporale, poiché qui la congiunzione suona come segue: « In quei giorni, dopo quella tribolazione ». Osservando però l’insieme della tecnica redazionale di Marco, la faccenda si presenta più complessa. La formula « in quei giorni » è infatti una variante redazionale tipica, una formula che serve a legare componenti già esistenti del testo. « In illo tempore » non è una costatazione cronologica, ma fa parte di uno schema redazionale e non afferma nulla circa l’effettivo nesso cronologico o oggettivo. Confrontando i due vangeli, possiamo osservare che in Luca si delinea un’esplicita visione storica che concepisce il tempo dei pagani come apertura sul futuro del mondo, mentre Marco si limita a un semplice collegamento tecnico delle parti tradizionali, dal quale nulla emerge circa il reale nesso. In Matteo, il problema è risolto diversamente ancora. Egli inizia con le parole: « Subito dopo la tribolazione di quei giorni... » (v. 29). Qui è stato effettivamente stabilito un collegamento temporale. Lo schematico « in illo tempore » del secondo vangelo è_sostituito con « subito » e sembra avvicinare gli avvenimenti della fine del mondo tangibilmente alla distruzione di Gerusalemme. Tuttavia, si dovrà tener presente che questo « subito » riprende il tenore dei versetti precedenti, che contrappongono alla certezza dell’attesa l’incalcolabilità e la repentinità dell’evento. In conformità a ciò si dovrà tradurre il greco di questo testo piuttosto con « improvvisamente, repentinamente e non con « subito » e interpretare l’affermazione in questo senso. Rimane comunque l'impressione che la tribolazione della distruzione di Gerusalemme sia anche cronologicamente connessa agli eventi della fine del mondo. Che cosa dire su questa differenza nella tradizione sinottica e sul problema oggettivo ivi connesso? Fin dall’inizio si impongono tre punti di vista: a) In primo luogo, diviene chiaro che solo attraverso il coro a quattro voci dei vangeli (Giovanni ne fa parte pure lui) possiamo percepire quell’unica voce dell’Evangelo. La parola di Gesù esiste sempre solamente come parola ascoltata, come parola trasmessa dalla Chiesa. Essa non può entrare nella storia se non venendo ascoltata e, nell’ascolto, assimilata. Qgni ascolto e, di conseguenza, ogni tradizione è contemporaneamente un interpretare; mentre si illumina un lato, si oscura un altro. Per questo motivo, la Chiesa ha respinto giustamente il tentativo di Taziano di redigere un vangelo unico. Nessun prodotto letterario potrà mai essere « il Vangelo ». Soltanto attraverso il coro a quattro voci il messaggio di Gesù raggiunge sempre nuovamente l'inteletto dei credenti e può essere compreso. b) In conformità a ciò, il vangelo non si colloca di fronte alla Chiesa come « cosa a sé stante », chiusa e definita in sé. L.’errore metodico fondamentale consiste nel voler ricostruire una ipsissima vox Jesu e misurare su questa sia la Chiesa sia il Nuovo Testamento. Questa costatazione non deve affatto renderci scettici, sebbene significhi limitare la portata delle conoscenze storiche, poiché vuol dire questo, che il messaggio di Gesù si rivela a noi anche e proprio attraverso l’eco storica che ha trovato. In questa eco si illuminano le sue particolari possibilità, si rivela la sua multiformità e molteplicità; esso ci dice sulla realtà molto più di tutte le ricostruzioni, i cui criteri di giudizio restano pur sempre discutibili. c) La conclusione determinante mi sembra questa: che, specie per quanto riguarda il nostro problema, nella letteratura neotestamentaria la differenza tra schema e realtà non sia risolta; la formazione letteraria è — anche in considerazione della persona dell’autore — schematica; essa non può narrare che avverrà semplicemente come ciò che fu. Il modo di conciliare schema e realtà riesce nei singoli autori differenziato, ma in nessuno troviamo la pretesa di un’identità dei due. Neppure la storia passata viene costruita come un insieme storico-genetico, ma presentata in rag- gruppamenti schematici con collegamenti schematici, perché non interessa conoscere l’esatto svolgimento cronologico, e un’eventuale causalità dello sviluppo, bensì prevale l'interesse per l'interiore unità della cosa. A maggior ragione, è ovvio che il futuro non può essere narrato come un ininterrotto decorso cronologico, ma che dev’essere presentato prevalentemente in base a contenuti, per il cui collegamento le tecniche narrative classiche offrono gli aiuti necessari, senza che si possa storicizzare ciò che tuttora non è avvenuto e che non è stato ancora sperimentato. Il fatto che quanto è impossibile narrare empiricamente debba essere riferito qui ugualmente con i mezzi tradizionali della tecnica narrativa, spiega però insieme che il carattere schematico dell'affermazione non dipende da un’eventuale e in sé superabile incapacità di esprimersi degli evangelisti. Il divario tra schema e contenuto è in questo tema essenziale e necessario. Esso non può essere eliminato con mezzi puramente letterarir ma soltanto dalla realtà stessa, che col suo progredire lo restringe e chiarisce la diversità dallo schema. Solo tenendo conto dello svolgimento storico della realtà, lo schema potrà riempirsi di contenuti e potranno emergere sia l’importanza dei vari aspetti sia le loro correlazioni. La conclusione ermeneuticamente fondamentale qui determinante è questa: la storia posteriore fa parte della tensione del testo smesso. Essa non solo fornisce i criteri per commenti successivi, ma rivela inoltre, insieme con la realtà conosciuta, la portata della parola stessa. In conformità alla natura di questi testi, la loro interpretazione non può essere perciò considerata definitiva. Il che spiega pure che Giovanni, una generazione dopo, ha potuto penetrare in modo autentico nella profondità della parola e comprenderne il vero significato meglio degli evangelisti precedenti. Il suo vangelo non è pertanto solamente un adattamento postumo a una situazione mutata, bensì uno spirituale accompagnarsi con la parola stessa. Ne segue che la ricostruzione, che vuole racchiudere il testo nella Sua forma primitiva, consentirebbe di interpretarlo solamente da lì e deve quindi essere giudicata oggettivamente inopportuna. L’aperta tensione tra schema e realtà può essere sanata solo dalla stessa realtà che coinvolge nel testo pure la storia successiva. Soltanto arricchendosi di esperienze storiche, la parola può acquistare a poco a poco il suo pieno significato e lo schema riempirsi di realtà, mentre ci si fermerebbe a una vuota schematica quando si volesse trarre conclusioni definitive circa il contenuto solamente dalla più antica ricostruzione letterale del testo primitivo. Il lettore stesso viene quindi coinvolto nelle vicissitudini della parola e la potrà comprendere soltanto in qualità di partecipante e non di solo spettatore.