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Il significato fondamentale di questo collegamento risalta in modo particolarmente bello in alcuni testi molto antichi che illustrano la missione di Gesù, richiamando la figura del profeta Giona (Mt 12,38-42; Lc ll,29s; Mt 16,4). Alla richiesta di segni, avanzata da un gruppo di dottori e farisei, Gesù rispose con l’avvertimento, che a questa generazione jion. sarebbe stato dato alcun segno oltre a quello di Giona. A quanto pare, l’esatto significato di questa parola non era più del tutto chiaro nemmeno nella prima tradizione. Il testo di Matteo (12,38-42) lo riferisce al destino di morte e di resurrezione di Gesù, destino che sembra prefigurato in quello di Giona, il quale per tre giorni e tre notti rimase nel ventre del pesce, da dove partì per Ninive, al fine di esortare la città alla penitenza. In Luca invece, la generazione di Gesù è paragonata direttamente agli stessi niniviti, che non ricevettero alcun segno particolare, ma soltanto la visita personale del Profeta e la sua predicazione di penitenza. Molti motivi fanno presumere che sia questa la versione originale Ma comunque sia, le due tradizioni hanno due cose in comune: il segno cui si riferisce Gesù è Gesù stesso e si trova insieme nell’offerta del suo messaggio. Ma questo messaggio è un richiamo alla penitenza nell’ora presente del giudi-zio e della salvezza. Proprio questa correlazione tra penitenza e grazia, tra penitenza e escatologia diviene intelligibile quando riflettiamo sul segno di Giona. Ninive si è giocata la propria salvezza, ha meritato la distruzione. La grazia inaspettata e immeritata concessa a questa città peccaminosa consiste nel fatto che in mezzo al suo squallore le viene inviato il Profeta, che le rivela il suo destino e le offre la chance della penitenza. L’improbabile si verifica: la città si converte e avviene ciò che è ancora più improbabile e, ora come prima, immeritato: la città è risparmiata e per il Profeta è uno scandalo, contro il quale protesta ad alta voce. La penitenza appare qui essa stessa come grazia; in primo luogo per il fatto di essere offerta e, in secondo luogo, per essere accettata. Questa concezione rispecchia la predicazione di Gesù, il quale proclama con autorità che la penitenza è grazia e si rivolge perciò proprio ai peccatori e viene da questi compreso. In conformità a questo principio il messaggio di Gesù sul regno di Dio è improntato da un senso di continua attualità e non è legato né a luoghi né a tempi. Il suo campo non dipende da speculazioni su spazio e tempo, ma è incentrato sulla persona di Gesù e le sue categorie principali sono la grazia e la penitenza, la grazia e l’etica, che costituiscono un’unità inscindibile. Proprio questa correlazione è della massima importanza, tutta- via comprenderla in base alla sua storia preliminare riesce estremamente arduo all’interpretazione d’oggi. Per renderci conto del divario tra le interpretazioni e, insieme, dei vari aspetti del problema stesso, può essere utile confrontare al riguardo due interpretazioni, scritte a distanza di tempo relativamente breve l’una dall’altra, che si esprimono in maniera radicalmente opposta sul significato del testo. J. Schmid: « Il fatto che Gesù fa dipendere questo permesso di entrare nel regno di Dio dal compimento della volontà di Dio, da un determinato atteggiamento e da determinate azioni da parte del singolo uomo, conferisce al suo insegnamento un carattere individualistico ... e prettamente etico ... . Egli (Gesù) indica premesse esplicitamente religiose e etiche per l’entrata nel regno ... A seconda delle opere di carità che l’uomo ha compiuto oppure omesso sarà deciso nel giudizio se debba entrare nel regno o ne debba essere escluso e condannato alla perdizione eterna » (L’evangelo secondo Marco, 53 ss). Diversamente K.L. Schmidt: « Il regno di Dio si trova al di là dell'etica. Chi si orienta all’etica pensa logicamente al singolo individuo. Ora però, nella predicazione di Gesù e dei suoi apostoli, non è al singolo come individuo che viene rivolta la promessa, ma soltanto alla comunità di cui il singolo è membro e come tale ottiene la salvezza ... Il negativum, che il regno di Dio non è altro che un miracolo, deve essere mantenuto nella sua severa negatività. Questo negativum ... è quanto di più positivo possa mai essere affermato » (GLTN, II 193- 195). Un simile confronto di interpretazioni può essere estremamente utile per l’intelligenza del testo. In primo luogo vi si evidenzia in quale misura il risultato dell’interpretazione dipenda dal modo di impostare gli interrogativi e in quale misura vi si rispecchi sempre anche lo stesso interrogante. In secondo luogo, vi emerge che ambedue le interpretazioni chiariscono qualche cosa di quanto è effettivamente contenuto nel testo, ma che nessuna delle due spiega il tutto. Per scoprirlo, si dovrebbe, per così dire, fondere le due interpretazioni opposte. Con K. L. Schmidt (ma preciso, niente affatto contro J. Schmid) dovremo dire, che Gesù si oppone a una giustizia che intende creare (politicamente o moralmente) il regno di Dio con le proprie forze. A una simile giustizia fatta da sé, egli contrappone una liberazione che è interamente un dono, un ricevere (cfr. Mt 20, L16; Le 18,9-14; Me 4,26-29). Ma altrettanto fermamente sosterremo, che il regno di Dio viene espresso con categorie etiche (cfr. Mt 10, 16; 19, 17; 7,21-33; 25,31-40). Leggermente variato, ma insieme approfondito, appare questo contesto nelle beatitudini del Discorso della montagna. Anche qui le categorie etiche occupano un ruolo importante, dato che i poveri, gli ultimi, i quali, essendo insieme i destinatari del regno, sono quindi i primi, vengono specificati ulteriormente come i miti, come coloro che hanno fame di giustizia, gli uomini della misericordia, dal cuore puro, come gli operatori di pace, come quelli che accettano persecuzioni per amor della giustizia. Qui la grazia appare come un cambiamento, operato da Dio, dell’ordine turbato di questo mondo, come un rovesciamento operato da lui. Qui l'etica, sembra consistere nella stoltezza del farsi poveri, nell’abbandono delle ambizioni terrene, nell’avvicinarsi alla povertà di Dio e, quindi, nell’aprirsi alla sua ricchezza. A questa tensione è connesso, a sua volta, un altro aspetto antitetico, caratteristico per la predicazione di Gesù sul regno di Dio: questo regno vi è rappresentato sia con immagini di gioia, di festosità e di bellezza, sia con immagini di impotenza e di umiltà (da un lato, le parabole delle nozze e del convito; dall’altro lato, parabole della povertà, come quelle del granello di senape, del lievito, della rete con pesci buoni e cattivi, del campo di grano frammisto a gramigna). Questi paradossi, più di ogni altra cosa, escludono qualsiasi interpretazione che sostiene che la fine fosse ritenuta imminente; con essi Gesù si trova fuori tanto dello schema apocalittico quanto di quello rabbinico; la vittoria di Dio nella forma dell'umiltà, della povertà e della sofferenza: questa è la sua immagine nuova del regno. Tutto questo ci riconduce quindi con logica interiore al punto di partenza, al tipo di Giona. Gesù non ha annunziato una cristologia esplicita, ma le linee della sua predicazione portano a lui medesimo quale segno escatologico di Dio, al suo destino quale « adesso » di Dio. La persona di Gesù stesso si trova al punto prospettico di ciò che egli afferma sul regno di Dio. Esiste un testo, Lc 17,20s, che si sottrae univocamente a qualsiasi interpretazione certa, ma che, sullo sfondo dell’autoconsapevolezza di Gesù che traspare ovunque, può essere considerato indicativo. Alla domanda dei farisei, quando sarebbe venuto il regno di Dio, Gesù risponde: « Il regno di Dio non viene in modo da poterlo osservare (μετὰ παρατηρήσεως) e nessuno dirà: eccolo qui o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi (ἐντὸς ὑμῶν ἐστιν). La frase è estremamente difficile da tradurre; ogni traduzione equivale qui a un’interpretazione. Ma proprio così il testo rispecchia il chiaroscuro dell’intero messaggio di Gesù circa il regno, messaggio che nel suo insieme si sottrae al semplice guardare, assistere, « osservare » e le cui « traduzioni » sono sempre contemporaneamente interpretazioni. Nell’antichità incontriamo altrove la parola « osservare» che viene usata nel nostro versetto; l’incontriamo nel linguaggio della medicina, nel senso dell’osservazione di sintomi, come pure nell’ambito della predizione del futuro mediante l’osservazione, quale fu praticata assiduamente nell’astrologia e nel culto pagano. A un simile modo di guardare non si rivela dunque il mistero del regno. Esso richiede un altro modo di guardare. Ma quale? Nella storia dell’esegesi si possono costatare tre tipi di spiegazione del testo, nella cui contrapposizione si dimostra nuovamente come ogni risposta coinvolga inevitabilmente lo stesso , interrogante. Il primo tipo, che potremmo denominare « idealistico », ha predominato comunemente, seppure a sua volta con interpretazioni molto differenziate, da Origene fino all’inizio del nostro secolo. La locuzione « in mezzo a voi » viene qui tradotta con « in voi »; il che, sotto l’aspetto puramente lessicale, può essere esatto. Per cui si direbbe: il regno di Dio non è esteriore, ma interiore; il suo spazio è l’interiorità dell’uomo ed è là che bisogna cercarlo, esso si mostra soltanto nel cammino verso l’interno. Ma possiamo davvero credere, che Gesù formuli una simile apoteosi dell’interiorità, dato che abbiamo da lui parole come queste: « Voi che siete cattivi ... » (Mt 7,11 par.), parole da cui emerge chiaramente il suo realismo riguardo all’uomo, il suo sapere che « Dio solo è buono » (Me 10, 18)?