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Problemi particolari ... Il Documento della S. Sede richiama sette punti che considera fondamentali a questo proposito. I primi due riguardano la « risurrezione dei morti » che la Chiesa intende « come riferentesi all’uomo tutt’intero » (p. 400). Non viene ulteriormente precisato questo dato di fede che è giustamente lasciato nella sua indeterminatezza. Il teologo, per compiere il suo servizio, non può fermarsi a questo dato. Deve impegnarsi a chiarirne i contenuti. Credo che valga in merito quello che Ratzinger scrive circa la problematica della sopravvivenza: « senza "ermeneutica", cioè senza accompagnare il dato biblico con la ragione, che, collegando sistematicamente i pensieri, può portare anche sotto l’aspetto linguistico ben oltre il dato biblico come tale, non si ottiene nulla » (p. 121). È necessario perciò che il teologo chiarisca almeno che cosa non intende la fede quando propone la risurrezione dei morti. Per evitare « il pericolo di rappresentazioni fantasiose e arbitrarie, perché i loro eccessi entrano, in gran parte, nelle difficoltà che spesso incontra la fede cristiana », come ammette la Congregazione per la Dottrina della fede (p. 401); per escludere, cioè, la convinzione che « risurrezione dei morti » voglia semplice- mente dire la riassunzione del corpo quale esisteva durante la vita terrena, come molti sono portati a pensare. Anche la conclusione più restrittiva deve essere giustificata lungamente perché la tentazione di riempire i vuoti conoscitivi con le immaginazioni della fantasia e attribuirle alla fede sono molto facili. Ciò spiega come mai Ratzinger debba percorrere un lungo cammino biblico e storico (pp. 174-204) per affermare « che è del tutto impossibile immaginare anche solo approssimativamente un benché minimo dettaglio circa il mondo della risurrezione ... Non possiamo farci delle idee al riguardo e, d’altronde, non ne abbiamo neppure bisogno. Si dovrebbe quindi rinunciare definitivamente a tentativi di questo genere » (p. 202). Quanto alla « sopravvivenza » e alla « sussistenza dopo la morte di un elemento spirituale ... in modo tale che 1’ "io” umano sussista, pur mancando nel frattempo del complemento del suo corpo » (p. 400, n. 3), la Lettera della Congregazione romana nel terzo punto richiama l’uso della parola « anima » consacrato dall’uso tradizionale della Chiesa. Il termine « anima » non ha avuto certo utilizzazioni dogmatiche così precise come altre parole dell’uso ecclesiale, ma poiché « è assolutamente indispensabile uno strumento verbale per sostenere la fede dei cristiani » e poiché non esiste « alcuna seria ragione per respingerlo » (p. 401), la Congregazione per la Dottrina della fede ritiene che allo stato attuale la teologia non ha offerto alternative valide allo schema « anima-corpo », pur imperfetto. Anche Ratzinger, dopo la dettagliata analisi della problematica (§ 5, I, pp. 118-126), della tradizione biblica (II, pp. 126- 146) e dottrinale (III, pp. 146-153) e dello sviluppo teologico (IV, pp. 153-169) relativi all’im- mortalità, conclude che « una dualità che distingue ciò che è costante da ciò che è variabile è necessaria già per la logica stessa della realtà. Per questo motivo la distinzione tra anima e corpo è indispensabile » (p. 170). È necessario però riconoscere che se « nella tradizione cristiana questa dualità è stata elaborata con sempre maggior coerenza ... in un modo che non vi traspare alcuna traccia di dualismo, ma che vi si evidenzia, anzi, la dignità e l’unità dell’uomo » (p. 170), ciò vale per gli scritti più elevati ma non certo per le esposizioni catechetiche, le omelie e le credenze popolari che pur tanta parte hanno nello sviluppo della tradizione cristiana. Il richiamo perciò all’esattezza della dottrina è anche un invito alla sobrietà delle formule e all’insistenza sull’unità profonda deH’uomo e sulla sua integrità personale, anche nel dopo morte. Senza che tutto ciò impedisca la ricerca per nuovi schemi. Anzi, di fatto la sollecita. Un altro punto di preoccupazione per la Congregazione romana è la tradizione liturgica relativa ai defunti. « La Chiesa (perciò) esclude ogni forma di pensiero o di espressione, che renderebbe assurdi o inintelligibili la sua preghiera, i suoi riti funebri, il suo culto dei morti, realtà che costituiscono, nella loro sostanza, altrettanti luoghi teologici » (p. 401, n. 4). Inintelligibile il culto dei morti diventerebbe se fosse negata ogni sopravvivenza personale, o la possibilità di un cambiamento di stato nella vita futura (Purgatorio), o infine qualsiasi influenza dei viventi sulla condizione dei defunti. La determinazione ulteriore di questi insegnamenti della fede non viene offerta, anzi sembra venire espressamente esclusa dal carattere difensivo della proposizione, e dalla preoccupazione generale di evitare « rappresentazioni fantasiose ed arbitrarie », che in ordine al Purgatorio hanno avuto largo credito presso fedeli e anche teologi di altri tempi. Se si intende il Purgatorio come « quel processo necessario della trasformazione spirituale dell’uomo, che lo pone in grado di essere vicino al Cristo, vicino a Dio, e di unirsi all’intera Communio sanctorum » (Ratzinger, p. 239), non sarà difficile capire le pratiche liturgiche relative ai morti. L’uomo non è una monade; anzi, procedendo nell’esistenza, approfondisce maggiormente i rapporti. « L’uomo non è mai solamente se stesso, o meglio, egli è se stesso soltanto negli altri e mediante gli altri » (Ratzinger, p. 241). C’è da supporre perciò che il rapporto dei defunti con le sorgenti della vita e perciò con i viventi siano più profondi che i nostri, ancora embrionali e provvisori. « L’amore in rappresentanza è un principio cristiano centrale, e la dottrina del Purgatorio conferma che per questo amore non esiste il confine della morte » (id., p. 241). La preghiera è già una trasformazione dell’uomo, è un atto di amore o riconoscenza o pentimento ecc. che lo modifica dall’interno. Lo rende più capace di comunione e più sensibile ai rapporti. Con ciò stesso la preghiera cambia l’ambiente vitale e si riversa sugli altri come benedizione e stimolo di rinnovamento. Non è necessario immaginare un « intervento » di Dio che si muove in seguito alle sollecitazioni umane. Dio è già all’inizio della preghiera. Egli è la ragione della comu- nione vitale, la fonte del desiderio stesso. La sua azione è già presente con tutta la ricchezza della « grazia ». È l’uomo che nei suoi limiti non riesce ad accogliere che frammenti progressivi del dono offertogli. La preghiera è appunto un momento di « espansione vitale », di accoglienza rinnovata e quindi di comunione più profonda. Il beneficio perciò della preghiera si espande e solleva il tono vitale di tutto l’ambiente. Ora l’uomo non è solo in virtù del suo presente; egli è la sua storia, è l’emergenza dei rapporti passati. La sua esistenza non si esaurisce nel visibile. Anche se non conosciamo le modalità dei rapporti con il mondo dell’al di là, resta il fatto che la tradizione della preghiera per i defunti ha un fondamento plausibile nella struttura di relazione e di comunione di ogni esistente umano.