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Con il termine “Sicurezza” intendiamo la condizione o la caratteristica di ciò che è privo di rischi o pericoli, un bisogno fondamentale dell’uomo che precede ogni altra necessità sociale. La conoscenza dei rischi presenti in ambito lavorativo si traduce nella totale eliminazione o drastica riduzione della possibilità di incidenti con conseguenti danni a cose o persone. Il rischio non rappresenta l’evento dannoso, ma la possibilità che questo si verifichi. Il sistema normativo sulla sicurezza sul lavoro è nato negli anni 50. Negli anni 80 prendono luce norme di origine europea, recepite nell’ordinamento italiano con il D.Lgs 626/94, inserendosi nell’articolato e complesso corpus normativo, in attuazione di alcune norme di principio contenute sia nella Costituzione italiana che nel Codice Civile (artt. 35, 38, 41 Cost e art 2087 CPC). E’ con il D.Lgs 626/1994 che la precedente normativa sulla sicurezza sul lavoro, complessa ed eterogenea, trova una sua prima ed efficace sistemizzazione e riordino. Il riconoscimento della tutela della salute da un lato come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, dall’altro come limite espresso all’esercizio dell’iniziativa economica privata emerge con chiarezza rispettivamente dagli artt. 32 e 41 Cost. Si tratta di un’affermazione che non rimane relegata sul piano sia pure importante, degli interessi costituzionalmente garantiti, ma che viene riconosciuta e specificata anche dalla legislazione ordinaria, sia essa di derivazione codicistica o configurabile come speciale. Per quanto riguarda la prima, occorre riferirsi all’art 2087 CPC, il quale impone al datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”. La formulazione della norma – particolarmente felice e del tutto attuale – è tale da farla considerare un vero e proprio precetto riassuntivo degli obblighi di facere “scritti e non scritti”, “presenti e futuri” del datore di lavoro vigenti intema di sicurezza nei confronti 5 dei “singoli lavoratori” e con riferimento alla loro “specifica attività lavorativa”. A tale conclusione si giunge facilmente ove si rilevi che la norma codicistica commisura l’obbligazione di sicurezza a 3 parametri – la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – i quali operano in combinato disposto e rendono l’obbligazione stessa a contenuto “aperto2 e con oggetto non già predeterminato, ma destinato a variare nel tempo. Nella citata prospettiva, in primo luogo il datore di lavoro è chiamato ad adottare non solo le misure di sicurezza previste dalla legislazione vigente in materia, ma anche quelle comunque ritenute necessarie alla luce delle cognizioni della “migliore tecnologia” e del patrimonio di esperienza tipici di un determinato momento storico (vedi Sentenza Corte Cassazione 29 marzo 1995, n. 3740). In tal modo, da un lato è possibile supplire alle lacune di una normativa antinfortunistica, che non può essere in grado di prevedere qualsiasi fattore di rischio. Dall’altro, si evita l’obsolescenza delle misure di sicurezza, prevedendone un aggiornamento automatico in conseguenza dell’innovazione tecnologica. Sotto tale profilo, l’art 2087 CPC opera come norma di chiusura del sistema degli obblighi del datore di lavoro in tema di sicurezza. La giurisprudenza rafforza la linea interpretativa dinanzi esposta del precetto in esame. Infatti, si sostiene che la funzione suppletiva della norma de qua è tale da imporre al datore di lavoro di tutelare l’integrità fisica del lavoratore non solo sotto il profilo igienico-sanitario o antinfortunistico, ma anche con riferimento ad attività criminose di terzi, in relazione alla frequenza assunte da tale fenomeno rispetto ad alcune imprese, quali ad esempio le banche (vedi Sentenza Corte Cassazione 6 settembre 1988, n. 5048, la quale ritiene una banca obbligata a risarcire ex art 2087 CPC i danni subiti dal dipendente in occasione di una rapina verificatasi in una sede, in cui la porta di accesso al pubblico era munita di un congegno automatico di apertura difettoso). L’art 2087 CPC impone al datore di lavoro di adottare le misure di sicurezza richieste non solo dalle caratteristiche oggettive dell’attività di lavoro, ma anche dalla condizione soggettiva dei singoli lavoratori. Ciò significa anzitutto che occorre affidare l’attività lavorativa a persona di idonea professionalità (vedi Sentenza Corte Cassazione 17 maggio 1993, n. 5064) e che occorre altresì attenzione per lo stato di salute del 6 lavoratore (vedi Sentenza Corte Cassazione 22 luglio 1993, n. 8152). Infine, le misure prevenzionistiche devono essere rivolte alla tutela della personalità sia “fisica” che “morale” del prestatore di lavoro, sicchè, ad esempio, dovrebbero essere evitate forme di lavoro alienante o ripetitivo. La configurazione di un vero e proprio diritto del lavoratore alla predisposizione di idonee misure di sicurezza da parte del datore di lavoro, secondo la prevalente interpretazione, comporta la legittimità di forme di rifiuto della prestazione fondate da alcuni sull’eccezione di inadempimento del contratto (art 1460 CPC), da altri sulla figura della mora accipiendi, in ogni caso con il riconoscimento per il lavoratore del diritto al mantenimento della retribuzione e del posto di lavoro. Se la formulazione dell’art 2087 CPC è tale da assicurare sul piano astratto l’obiettivo della “massima sicurezza tecnologicamente possibile”, sul piano della sua effettività la norma ha invece fallito il raggiungimento dello scopo prefissato di adattamento automatico della legislazione vigente ai mutamenti tecnologici. Infatti, il precetto è stato utilizzato non già sotto il profilo prevenzionale – cioè per ottenere l’attuazione delle misure necessarie alla sicurezza – quanto piuttosto a posteriori, cioè in sede di azione giudiziaria esperita dal lavoratore ai fini di chiedere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’inadempimento dell’obbligo di sicurezza da parte del datore di lavoro. Sotto quest’ultimo aspetto, la giurisprudenza ha valorizzato al massimo le potenzialità operative della norma. Infatti, si è rilevato che la previsione dell’art 2087 CPC comporta che al lavoratore sia sufficiente provare il danno ed il nesso causale, spettando alla controparte la dimostrazione di avere fatto tutto il possibile per evitare lo stesso. Peraltro, il datore di lavoro è tenuto ad un’attività di controllo e di vigilanza costante volta ad impedire comportamenti del lavoratore tali da rendere inutili od insufficienti le cautele tecniche apprestate (vedi Sentenza Corte Cassazione 8 febbraio 1993, n. 1523) e deve adottare se necessario, sanzioni di carattere disciplinare anche di carattere espulsivo come il licenziamento. Tale obbligo è ricavato dagli artt. 4 rispettivamente dei DPR n. 547 del 1955 e n. 303 del 1956, i quali prevedono che datori di lavoro, dirigenti e preposti – nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze – debbano “disporre ed esigere che i lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione 7 messi a loro disposizione”. Proprio a ragione di questo obbligo di vigilanza, si ritiene che la colpa del lavoratore non possa costituire motivo di esonero della responsabilità del datore di lavoro o del soggetto da lui delegato (vedi Sentenza Corte Cassazione 17 novembre 1993, n. 11351). La responsabilità verrebbe meno esclusivamente nell’ipotesi in cui il lavoratore adottasse una condotta assolutamente imprevedibile, cioè eseguisse il proprio lavoro con modalità del tutto anomale, atipiche ed inconsuete