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1. Il diritto all’abbigliamento religiosamente orientato: molte confessioni religiose richiedono ai loro fedeli di indossare un abbigliamento tipico. Questo può avvenire nel solo momento della preghiera, oppure in ogni istante della vita. In generale l’abbigliamento individuale rientra nella sfera di autonomia personale, per cui i fedeli possono vestire in conformità al loro credo: il diritto all’abbigliamento religiosamente orientato risulta inoltre garantito dalle norme della Costituzione che tutelano i diritti inviolabili della persona umana (art.2), il diritto di esprimere il proprio pensiero con ogni mezzo (art.21) e soprattutto il diritto di libertà religiosa (art.19). A livello europeo il diritto di indossare abbigliamento religioso trova protezione nell’art. 9 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Ci sono però casi in cui determinati abiti possono far emergere problemi di compatibilità con la tutela di diritti di pari grado: in questi casi è richiesto un bilanciamento che può limitare il diritto all’abbigliamento religioso. In materia non esiste una normativa generale, ma ci sono leggi particolari che prescrivono l’osservanza di determinate cautele al fine di salvaguardare l’interesse pubblico all’igiene o alla sicurezza e che possono quindi comportare delle restrizioni verso l’uso di determinati tipi di abbigliamento. Una delle prime forme di abbigliamento interessate è la kippah ebraica, utilizzata da tutti i maschi durante la preghiera, ma anche nella vita quotidiana dai soggetti più osservanti: questo copricapo era in contrasto con il giuramento nel processo penale, che prescriveva il capo scoperto. La risoluzione di questo problema è stata la stipulazione di un intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche, che prevedeva che gli ebrei potessero prestare giuramento con il capo coperto. Uno dei maggiori problemi di compatibilità con l’ordinamento civile ha riguardato il velo islamico delle donne musulmane, che si può distinguere in diversi tipi di occultamento del viso e del corpo (dal semplice foulard sulla nuca al burqa integrale). Negli ultimi anni, a seguito della crescita esponenziale del fenomeno dell’immigrazione, i casi giurisprudenziali si sono moltiplicati: le soluzioni adottate dal legislatore o dai giudici sono diversificate e sono fornite caso per caso. 2. Abbigliamento religioso occultante: si tratta di tipi di abbigliamento che coprono integralmente il volto, creando problemi di incompatibilità in merito all’uso di fogge occultanti nello spazio pubblico e il rifiuto di queste fogge quando sia necessario apporre fotografie nei documenti di riconoscimento della persona. Per quanto riguarda l’abbigliamento occultante nello spazio pubblico, nell’ordinamento italiano l’essere riconoscibili risponde al principio generale di ordine pubblico. L’art. 85 t.u.l.p.s. vieta di comparire mascherati in pubblico, pena una sanzione amministrativa, poiché in tal modo si potrebbe più facilmente commettere un crimine eludendo le indagini della polizia (in realtà questa norma si riferisce soprattutto a maschere teatrali). L’art. 5 l. 152/1975 (c.d. Legge Reale) sancisce il divieto di “qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento ella persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico senza giustificato motivo”, pena una ammenda. Questa norma sembra essere maggiormente adeguata al tema, ma pone una deroga, ossia la presenza di un giustificato motivo, che potrebbe legittimamente essere indicato nell’attuazione di una prescrizione religiosa. Queste norme sono state riesumate in anni recenti per vietare l’uso dei veli islamici in pubblico (es. ordinanza del sindaco di Azzano Decimo), ma ordinanze e denuncie di questo tipo sono state sempre respinte dalle autorità giudiziarie, che hanno giustificato la loro decisione con la deroga prevista dall’art. 5 della Legge Reale e con la mancanza di una norma di legge che specifichi il divieto di utilizzo di questi veli. Secondo i giudici che hanno deciso in merito all’ordinanza del sindaco di Azzano Decimo, l’utilizzo del velo coprente non è un mezzo per rendere difficoltoso il riconoscimento, ma una tradizione culturale. Le esigenze di pubblica sicurezza sarebbero inoltre sufficientemente soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasioni di manifestazioni pubbliche e dall’obbligo per tali persone di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del velo ove ciò si renda necessario. In altri Paesi europei sono state emanate norme specifiche dirette a vietare l’abbigliamento occultante nei luoghi pubblici. In Francia nel 2010 il legislatore ha vietato espressamente la “dissimulazione del volto nello spazio pubblico”, salvo deroghe per motivi di salute o per contesti di festival o feste tradizionali, e ha deciso di punire la violazione del divieto con un’ammenda e con la reclusione per chi ha costretto la persona a dissimulare il volto. Anche in Belgio nel 2011 è stata emanata una legge ad hoc atta a vietare l’uso delle fogge di velo che occultano il volto in luogo pubblico, salvo che si tratti di manifestazioni artistiche o storico-culturali. Nel Regno Unito è stata invece intrapresa una via garantista per l’abbigliamento religioso, che viene ammesso su tutto il territorio nazionale. In Spagna si è scelta una via mediana: lo Stato si astiene dal proibire l’uso del velo integrale, ma il divieto può essere introdotto dai sindaci o da altre autorità locali con provvedimenti amministrativi. Il Tribunale Supremo spagnolo ha poi sottolineato come la limitazione di questa forma di libertà religiosa debba sempre essere giustificata in concreto. In Danimarca non c’è alcuna legge o provvedimento amministrativo locale che proibisca di indossare il velo integrale, ma ci sono sentenze di tribunali e direttive governative che forniscono linee guida per affrontare i casi più controversi: ad esempio tutte le persone che lavorano nei tribunali danesi devono avere il volto scoperto, le donne che utilizzano il burqa possono prendere i mezzi pubblici ma non essere titolari di abbonamenti che richiedono l’identificazione del titolare, le scuole possono proibire il velo integrale ecc. 44 lOMoAR cPSD|4459911 Per quanto riguarda le fotografie dei documenti di riconoscimento, in molti casi gli aderenti ad una confessione religiosa che prescrive un determinato abbigliamento, rivendicano il proprio diritto di essere ritratti con tali fogge anche nelle fotografie da apporre ai documenti. Proprio perché lo scopo delle fotografie allegate ai documenti è di identificare la persona, è diffusamente vietato produrre fotografie che ritraggono il soggetto con il volto integralmente coperto. È invece più controversa la possibilità di ammettere fotografie che ritraggono il titolare con abbigliamento religioso, tanto che i diversi ordinamenti hanno dato risposte differenziate. In Italia è stato autorizzato l’uso del copricapo nelle foto destinate alle carte di identità di cittadini professanti culti religiosi che ne impongano l’uso. Si viene quindi a considerare il velo o il turbante come integrativi della fisionomia di chi li porta, poiché indossati abitualmente: il Ministero dell’Interno precisa tuttavia che i tratti del viso devono essere ben visibili (dal mento alla fronte). In Francia invece si impone il capo scoperto su tutti i documenti di identità: in relazione alla suddetta normativa si è espressa anche la corte europea dei diritti dell’uomo, dichiarando che essa non contratta con la Convenzione, in quanto “lo Stato può imporre misure idonee a garantire la sicurezza pubblica”. In Belgio la normativa richiede il capo scoperto, salvo i casi in cui la copertura sia giustificata da motivi religiosi o medici, purché il volto sia visibile. La particolarità sta nel fatto che la Corte di Cassazione belga ha precisato che per far valere la deroga serve una documentazione probatoria idonea. Negli Stati Uniti, pur non essendo ammesso l’uso del copricapo nelle fotografie dei documenti di identità, per la sola patente di guida in alcuni Stati membri è stata concessa l’obiezione di coscienza all’apposizione della fotografia sul documento. 3. Abbigliamento ostensivo: in alcuni casi l’abbigliamento religioso può essere in contrasto con l’ordinamento civile non per le sue caratteristiche, ma per il contesto in cui è portato. In questi casi il diritto del fedele di indossare abbigliamento religioso è limitato per il solo fatto che l’ostentazione può turbare coloro che condividono lo stesso contesto: esempi di contesto sono la scuola pubblica, il luogo di lavoro e le aule giudiziarie. Nella scuola pubblica in Italia, in assenza una legislazione che lo vieti, è per prassi diffusamente ammesso l’utilizzo agli studenti di abbigliamento religioso, nei casi in cui esso non copra integralmente il volto. La prassi potrebbe essere diversa (ma non ci sono casi giurisprudenziali) per quanto riguarda l’abbigliamento religioso degli insegnanti: secondo parte della dottrina gli insegnanti devono rispettare il principio di neutralità dell’insegnamento pubblico (art. 97 Cost.) e devono astenersi dall’indossare abbigliamento religioso per non influenzare gli studenti. In conformità con questo orientamento è una sentenza della Corte europea che ha legittimato la limitazione di un’autorità scolastica svizzera verso un’insegnante convertita all’Islam: la Corte ha considerato legittima la restrizione in ragione della tutela del principio di neutralità confessionale dell’insegnamento scolastico. La lettura della sentenza solleva tuttavia non poche perplessità: la Corte ha censurato l’ortoprassi posta in essere dalla donna senza che vi sia stata contestazione da parte dei genitori degli alunni, né sia stata effettuata alcune indagine per accertare l’impatto negativo del velo sulla libertà religiosa e di coscienza dei bambini.