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Io non tornavo in montagna da dieci anni. Fino ai venti ci avevo trascorso tutte le mie estati. Da bambino di città, allevato in appartamento, cresciuto in un quartiere in cui non era possibile scendere in cortile o per strada, la montagna aveva rappresentato per me l’idea più assoluta di libertà. Avevo imparato a muovermi lassù con un'iniziale brutalità e poi molta naturalezza, come altri bambini imparano a nuotare perché un adulto li butta in acqua: a otto anni avevo cominciato a camminare sui ghiacciai, a nove ad arrampicare su roccia e a sedici ormai andavo in giro da solo, ed ero molto più a mio agio sui sentieri che per le strade della mia città. Per dieci mesi all'anno mi sentivo costretto in abiti buoni, e in un sistema di autorità e di regole a cui obbedire; in montagna mi sbarazzavo di tutto e liberavo la mia natura. […] Ma a trent'anni avevo quasi dimenticato com’era stare da solo in un bosco, o immergermi nudo in un torrente, o correre sul filo di una cresta dopo cui c’è soltanto cielo. Quelle cose le avevo fatte ed erano i miei ricordi più felici. Il giovane uomo urbano che ero diventato mi sembrava l'esatto contrario di quel ragazzo selvatico, così nacque in me il desiderio di andare a cercarlo. Non era tanto un bisogno di partire, quanto di tornare; non di scoprire una parte sconosciuta di me quanto di ritrovarne una antica e profonda, che sentivo di avere perduto. Avevo messo da parte un po’ di soldi, il necessario per vivere qualche mese senza lavorare. Cercai una casa che fosse lontana dai centri abitati e il più in alto possibile. Non esistono grandi spazi selvaggi sulle Alpi, ma non serve l’Alaska per vivere l’esperienza che desideravo. In primavera trovai il posto giusto nella valle accanto a quella in cui ero cresciuto: una baita di legno e pietra a duemila metri d’altezza, dove gli ultimi boschi di conifere cedono il passo ai pascoli estivi. Un luogo in cui non ero mai stato ma un paesaggio che conoscevo bene, solo l’altro versante delle montagne che battevo da ragazzo. Si trovava a una decina di chilometri dal paese più vicino e a pochi minuti da un villaggio che si popolava d’estate e d’inverno, ma il trenta di aprile, quando io ci arrivai, non c’era nessuno. I prati erano ancora in letargo, tinti dei colori bruni e ocra del disgelo; le montagne e le vallette in ombra ancora coperte di neve. Lasciai la macchina alla fine della strada asfaltata. Mi caricai lo zaino in spalla mi incamminai per la mulattiera, attraverso un bosco e poi un pascolo innevato, fino a un gruppo di alpeggi ormai in rovina, tranne quello rimesso a nuovo che avevo preso in affitto. Arrivato alla porta d’ingresso mi voltai: intorno non c’era niente se non il bosco, i prati e quei ruderi abbandonati; all'orizzonte le montagne che chiudono la Val d’Aosta a sud, verso il Gran Paradiso; e poi una fontana scavata in un tronco, i resti di un muretto a secco, un torrente che gorgogliava. Sarebbe stato il mio mondo per un periodo che non avevo stabilito, perché non sapevo che cosa mi riservava. Quel giorno il cielo era di un grigio funereo, una mattina gelida e senza luce. Non avevo nessuna intenzione di sottopormi a una tortura: se avessi trovato qualcosa di buono lassù sarei rimasto, ma mi poteva anche succedere di piombare in una disperazione peggiore, e in quel caso ero pronto a scappare via. Mi ero portato libri e quaderni. Speravo di ricominciare a scrivere, con il tempo. Ma adesso avevo freddo, dovevo mettermi addosso un maglione e accendere il fuoco, così spinsi la porta ed entrai nella mia nuova casa.  tratto da “Il ragazzo selvatico” di Paolo Cognetti