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Skip to content quaderni Sfruttando un diffuso escamotage letterario, proviamo a fare un breve viaggio nel tempo, e curiosiamo nella vita di un lettore, appassionato di fantascienza nel 1986. Un momento atteso con trepidazione era probabilmente quello in cui nella cassetta della posta avrebbe trovato il Cosmo informatore, una fanzine per addetti ai lavori che l’Editrice Nord inviava ai suoi lettori, e in cui si potevano reperire le nuove proposte editoriali e qualche notizia dal cuore dell’impero, ovvero dalla fantascienza anglosassone. Certamente non si trattava dell’unico strumento a disposizione del nostro accanito lettore, per quanto fosse probabilmente quello più diffuso, in termini propriamente quantitativi. In quegli anni il mondo della SF italiana aveva già visto nascere e morire la prima serie di Robot (oggi risorta più bella che mai), così come Un’ambigua Utopia, rivista e collettivo su cui si è tornati a discutere ampiamente negli ultimi mesi. Il nostro lettore quindi probabilmente, oltre ai classici della golden age, aveva già avuto modo di leggere le opere di Philip Dick, di James G. Ballard, di Samuel Delany, di John Brunner, di Ursula K. LeGuin, per citare alcuni dei nomi di punta delle avanguardie degli anni Settanta; eppure in quell’anno il suo orizzonte letterario (e fantastico) a partire dalla sua casella della posta e dal Cosmo informatore, avrebbe visto accendersi una fiamma senza precedenti. Il numero 80 della collana principale dell’Editrice Nord, la Cosmo Oro, quell’anno presentava l’esordio nel romanzo di un autore quasi sconosciuto, salvo che per alcuni racconti, letti in lingua originale solamente dagli addetti ai lavori. L’autore era William Gibson, il romanzo Neuromante e la fiaccola il cyberpunk, e nulla sarà più come prima. Andata e ritorno tra futuro e presente Grazie alla nostra Delorean ritorniamo al presente e scopriamo che quest’anno, 2021, oltre trentacinque anni dopo questo esordio e in attesa della traduzione italiana del più recente romanzo di Gibson, Mondadori ha mandato alle stampe un poderoso volume dedicato al Cyberpunk, in cui sono contenuti tre dei romanzi cardine del filone, ovvero lo stesso Neuromante, La Matrice Spezzata di Bruce Sterling (uscito nel 1985 e l’anno dopo in traduzione italiana) e Snow Crash di Neal Stephenson (del 1992, poi tradotto da noi nel 1995). A questi si affiancano una nuova traduzione di Mirrorshades, la prima antologia di racconti dedicata al cyberpunk, anch’essa risalente al 1985, e una nuova introduzione a firma dello stesso Bruce Sterling, oltre a una postfazione di Francesco Guglieri. Al di là dell’interesse puramente storico che si riscontra in una nuova edizione, senza dubbio celebrativa del movimento, è doveroso chiedersi con quale approccio ci si deve accostare oggi a un tale volume. Equivale a rileggere Jules Verne o H.G. Wells, ovvero i classici del genere? Ci si pone quindi in un’ottica di storia del fantastico? Come dice lo stesso Sterling nell’introduzione scritta appositamente per il volume, riferendosi ai testi qui riuniti: “È bello che adesso siano manufatti storici, fossilizzati sulla pagina nella loro essenza. È divertente valutarli da un periodo culturale diverso”. Domandarsi quindi quale taglio interpretativo si deve dare a una riproposizione di un modulo letterario come il cyberpunk non è una questione oziosa, e nemmeno vuole essere una critica riduttiva del ruolo avuto in passato, ma è cruciale per poterne stabilire l’attualità, per potergli dare il posto che gli spetta, almeno per quanto riguarda la sua ricezione in Italia. Il cyberpunk non è un genere come un altro, ma un perno intorno a cui ruota la ricezione del fantastico nel contemporaneo. È un punto di non ritorno, lo si è detto. Riproporlo oggi pone una domanda chiara a proposito della sua attualità, del suo essere uno sguardo sul presente e sui motivi per cui, bene o male, piaccia o meno, bisogna farci i conti. Sterling nell’introduzione ha ben chiaro questo quesito, e lo affronta con cognizione di causa, senza sottrarsi alle sue responsabilità di co-fondatore. Un po’ di storia editoriale Facciamo un passo indietro, e rivolgiamoci nuovamente al passato. Dopo quel fatidico Cosmo Informatore del 1986, il cyberpunk in Italia esplose. La serie di vettori che spinse la ricezione del movimento più di quanto fosse prevedibile è ampia, e si lega a molteplici fattori, politici e filosofici, oltre che letterari. Devono però passare otto anni per poter fissare un secondo punto fermo, e lo possiamo collocare nel 1994, quando sempre l’Editrice Nord pubblicò, nella collana Grandi Opere, un volume intitolato anch’esso Cyberpunk, a cui evidentemente si ispira quello odierno, e che conteneva ventotto racconti, scritti dal gotha della sci-fi che in quel momento era accostabile al movimento. Nel frattempo, però Nord non fu l’unico editore a tradurre gli autori del filone, e tra questi spiccava per coraggio e lungimiranza la milanese Shake, che pubblicherà tra gli altri Neal Stephenson e Pat Cadigan, oltre ad alcune antologie rimaste nella storia e a tutt’oggi imprescindibili. Alla Shake, alla libreria Calusca e all’ambiente che vi ha incontrato, Sterling dedica un passaggio fondamentale nell’introduzione, riconoscendo di avervi trovato una sorta di mondo cyberpunk realizzato, qualcosa di simile a quanto previsto nei racconti e nei romanzi. Nello stesso modo riconosce il valore innovativo dell’odierno movimento connettivista e di altre realtà locali in cui si identifica. Il volume del 1994 è però particolarmente importante per una corretta comprensione di quanto accadeva in quegli anni, perché rappresenta il principale tentativo in Italia, anche se non l’unico, di affrontare l’ostico argomento di una canonizzazione basata su di un approccio critico, e fondato, in ogni caso, su quanto era stato detto e scritto negli Usa. La curatela fu affidata a Piergiorgio Nicolazzini, all’epoca uno dei pilastri dell’editoria di fantascienza in Italia, e oggi uno dei più rinomati agenti letterari. La sua lettura, anche a quasi trent’anni di distanza ci permette di capire molto di cosa è stato e su cosa ha influito il cyberpunk nel corso del tempo. Si trattava di un tomo di poco meno di settecento pagine, ed essendo andato velocemente esaurito, quando fu ristampato dalla stessa Nord nel 2001 venne diviso in tre volumi più maneggevoli, e intitolati L’universo cyber. Sostanzialmente conteneva lo stesso materiale ma con alcune importanti differenze: due racconti in meno, uno di Greg Bear e uno di Lewis Shirer, e soprattutto la scomparsa di parte delle bibliografie annesse e dell’introduzione. Quest’ultima era di Larry McCaffery, che, insieme a Brian McHale, fu uno dei principali critici letterari che si erano rivolti alla letteratura degli anni Ottanta, dando vita al cosiddetto postmodernism e ai diversi filoni che nel tempo vi hanno fatto riferimento. L’introduzione, intitolata emblematicamente Il deserto del reale, era un estratto del suo Storming the reality studio: A casebook of cyberpunk and postmodernist fiction (Duke University Press, 1991), e aveva il grande pregio di illustrare l’ottica e la logica con cui la critica americana interpretò il cyberpunk. Il vasto retroterra culturale I riferimenti filosofici, letterari e cinematografici sono ampiamente esplicitati nella bibliografia annessa al volume, e tra questi emerge la forte influenza esercitata dai pensatori francesi: Jean Baudrillard, Jean-François Lyotard, Guy Debord (e sullo sfondo Michel Foucault e Gilles Deleuze), riletti attraverso il filtro dell’opera del filosofo americano Fredric Jameson (con cui tra l’altro in quegli anni si laurea anche Kim Stanley Robinson), mentre in letteratura i riferimenti erano William Burroughs e la letteratura hard boiled, ovvero Raymond Chandler e Dashiell Hammet. Inoltre, David Foster Wallace, Thomas Pynchon, William T. Vollman, Don DeLillo, per citare i più noti, rientravano nell’universo letterario di riferimento. Questi nomi, più molti altri provenienti dal mondo della science fiction in senso stretto sono contenuti nella bibliografia presente, e curata da McCaffery stesso. Si tratta di Dick, John Brunner, Delany, Ballard, Alfred Bester, James Tiptree, ancora per citare solo i più noti, e a questi si affiancano molti nomi sia dal mondo della musica (Velvet Underground, Patti Smith, Sonic Youth, Throbbing Gristle, Sex Pistols) sia da quello del cinema (Ridley Scott, David Cronenberg, James Cameron). McCaffery è quindi sin dagli albori il principale sostenitore di una lettura filosofica e sociale del cyberpunk, che presenta come un genere a 360°, che spazia in ogni forma dell’arte e del pensiero, e inoltre che affonda le sue radici nella storia della letteratura fantastica, per gettare i frutti del suo immaginario ben oltre la sua stessa esistenza riconosciuta. In questo orizzonte in cui si collegano Mary Shelley e Jimi Hendrix vi sono delle influenze riconosciute ed effettive, ma molte rientrano in una determinata interpretazione del fenomeno cyberpunk, che andrebbe rivista anche alla luce del tempo trascorso. William Gibson, ad esempio, riconosce in molte interviste il suo debito verso la letteratura hard boiled e nei confronti delle tecniche di scrittura di William Burroughs, ma il legame con Jameson e la sua rilettura dei filosofi francesi è forse più facilmente da intendere in senso contrario a quello che riteneva la critica postmodernista. In realtà nessuno degli scrittori cosiddetti cyberpunk fu influenzato particolarmente da loro, nemmeno i più coscienti della portata delle loro opere, bensì quello che accadde è in un certo senso l’opposto: a partire da un famoso intervento di Jean Baudrillard a un convegno a Palermo intitolato La Fantascienza e la critica, nel 1978, fu la filosofia che si servì dello sguardo degli autori di science fiction per decodificare un reale che ogni giorno di più sfuggiva alle loro categorie.