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I GRECI E IL VINO Ci racconta Omero che i Greci bevevano vino, simbolo di indiscusso prestigio sociale, a colazione, a pranzo e a cena. Tre erano infatti i pasti nell’arco della giornata: l’ariston, il deiphon e il dorpon. Le viti non si coltivavano però a pergola, ma erano lasciate scorrere sul suolo evitando, con rami e stuoie, il contatto diretto delle ciocche con il terreno. Sempre secondo Omero era a metà settembre che gli uomini e le donne greche si dedicavano alla vendemmia; e dopo aver riempito di uva le conche di legno d’acacia o in muratura, procedevano alla pigiatura. La fermentazione avveniva in grandi vasi di terracotta cosparsi all’esterno di resina e pece e profondamente interrati, per limitare i danni provocati dalla traspirazione. La filtrazione ed il travaso seguivano dopo sei mesi ed il vino era versato in anfore di terracotta o in otri. DALLA GRECIA ALL’ETRURIA, DALL’ETRURIA IN FRANCIA Furono i Greci a portare la coltivazione della vite nella nostra penisola. La viticoltura in Italia appare infatti verso il 730-720 a.C. nelle colonie della Magna Grecia: nel bacino dell’Egeo non c’era più alcuna terra libera e parecchi Greci migrarono verso le coste del Mar Nero fino alla Crimea, ma anche verso la Calabria, la Sicilia e l’Italia meridionale, che erano scarsamente popolate. E’ da lì che la coltivazione della vite si estenderà all’Italia centrale. Fino al settimo secolo avanti Cristo vino ed olio deposti nelle principesche tombe del Lazio e dell’Etruria, provenivano da zone di oltremare: dall’Attica, dall’Eubea, da Corinto e dalla Fenicia. Nel seicentocinquanta avanti Cristo con la produzione di anfore etrusche da trasporto, vino ed olio divengono invece beni di largo consumo e di commercio. Romolo nel periodo dei re dà esempio di moderazione rifiutandosi, durante una cerimonia, di bere più di una coppa di vino: significa che quel bene era ancora scarso e prezioso. E così era anche ai tempi della civiltà micenea in Grecia: il vino veniva considerato un bene di lusso e in alcune tavolette compare per lo più tra gli elenchi di offerte alla divinità o tra i donativi di scambi diplomatici. IL SIMPOSIO Bere vino per i Greci era anche un rito collettivo, sensibili come erano alla dimensione comunitaria del vivere. L’occasione per farlo era il simposio, organizzato di solito per un matrimonio, per una festa familiare o per una ricorrenza religiosa. Gli invitati, almeno fino al IV secolo, dovevano essere rigorosamente tra tre e nove, che era poi il numero delle Grazie e delle Muse: assente la donna. Il padrone di casa assegnava i posti agli invitati a seconda dell’importanza – la disposizione doveva essere tale in modo che tutti potessero vedersi e parlarsi – mentre del servizio si occupavano alcuni giovani che miscelavano il vino con l’acqua, lo attingevano e lo versavano. Consumato il pasto, come ci racconta anche Platone, una coppa di vino non annacquato veniva passata in cerchio perché ogni commensale potesse berne un sorso e brindare. Del vino, versato fuori dalle coppe, era offerto anche a Zeus Olimpio, agli “spiriti degli eroi” e a Zeus Salvatore. Bere significava circondarsi di un’atmosfera magica: il vino era esso stesso divinità. E chi brindava assieme creava una comunità, anche se in epoca romana questo elemento rituale e sacrale tenderà progressivamente a diventare sempre più sfumato. E il banchetto si trasformerà in un evento borghese IL VINO DEGLI ANTICHI, IL RUOLO DELLE DONNE Il vino degli antichi era comunque molto più simile ad uno sciroppo di uva, sia pur a volte liquoroso, che a quello che noi oggi beviamo. Non a caso veniva sempre servito con acqua, che doveva essere prevalente. Bere il solo vino, oltre al rischio di potersi ubriacare, era visto come un’usanza barbara o sacrilega. E al vino talvolta si aggiungevano miele e resine, che lo rendevano più stabile e più adatto alla conservazione e al trasporto. Così faranno anche gli Etruschi, che al vino nei simposi e nei banchetti accompagnavano frutta, noci, mandorle, pasticcini, formaggi, miele ed altri stuzzichini. Tra i Greci e tra i Romani la donna non veniva ammessa alla mensa del marito e a Roma la suocera aveva il diritto di sentire se l’alito della nuora sapeva di vino. La donna che consumava vino veniva assimilata ad una adultera: solo nell’età imperiale le fu concesso di bere il vinum passum, cioè il vino passito, e in genere i vini dolci. La donna etrusca, invece, era sempre presente ai banchetti, sdraiata sul triclinio assieme al marito. IL VINO DEI ROMANI Nei primi anni dell’impero romano la vite era ormai ampiamente diffusa e coltivata in Italia, tanto che nel 90 d.C. Domiziano dovette imporre ai contadini della penisola, con un editto, di sradicare metà delle vigne e vietare nuovi impianti per far fronte ad una preoccupante crisi da sovrapproduzione. I primi vini romani erano comunque piuttosto grossolani: quelli più nobili venivano ancora importati dalla Grecia. Il vino che bevevano i romani era inoltre molto diverso da quello che oggi orna le nostre tavole. Andavano infatti matti per il vino lungamente invecchiato, come in genere in tutta l’antichità. Il Falerno non si poteva bere prima dei 10 anni e rimaneva ottimo fino a 30; i vini di Sorrento erano buoni soltanto dopo 25 anni. Per invecchiare i vini si usavano anfore, aiutandosi con fumo, calore e rudimentali sistemi di pastorizzazione. I vini che bevevano dovevano quindi essere densi, amari, eccessivamente alcolici e quasi sempre stravecchi: l’annacquamento, con acqua calda o fredda ma anche neve, era essenziale, mentre il vino puro (il merum) era riservato agli dei. A seconda delle qualità ad una parte di vino si potevano aggiungere anche tre parti di acqua. I Romani usavano moltissimo, inoltre, i “tagli” tra vini diversi: un dolce vino greco di Chio, ad esempio, per mitigare l’asprezza del Falerno. La bevanda comunque preferita rimaneva il mulsum, una miscela di miele e vino con cui si aprivano i sontuosi banchetti delle grandi famiglie patrizie.