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Del potere delle parole sulla nostra percezione, sulla nostra rappresentazione della realtà se ne parla da sempre. Da ben prima che Carofiglio pubblicasse la seconda edizione del suo libro sulla "manomissione delle parole"; da ben prima del grido di Nanni Moretti in Palombella Rossa; da ben prima di Mumon Ekai (Maestro zen del periodo Song) che meditava sulla distanza tra parole e realtà perché "...le lettere non incarnano lo spirito della mente; chi si attacca alle parole è perduto e chi dimora nelle lettere rimarrà nell'ignoranza"; da ben prima di Marco Tullio Cicerone il Vecchio a cui si attribuisce l'aforisma: “Niente è così incredibile che l’oratoria non possa rendere accettabile”; forse persino da ben prima di Confucio che sviluppò la germinale idea di "rettificare i nomi" come atto politico. Prima di tutti loro, è verosimile immaginare un uomo del paleolitico, o giù di lì, che segna sulla parete della propria grotta il graffito di un bisonte molto più grande di quello realmente cacciato. Come, per tornare ai nostri giorni, il luccio nella canzone stonata di Gianni Morandi. Nel bene e nel male Secondo i risultati di una veloce ricerca su Google, le parole creano la realtà e, proseguendo in ordine alfabetico: addomesticano, cambiano, confondono, costruiscono, definiscono, deformano, descrivono, influenzano, manipolano la realtà, e agiscono quindi sia in senso positivo che in senso negativo. Le parole nei libri o alla radio sanno ricreare la realtà tanto quanto produrne una ex novo e persino raccontare il "non immaginabile" (© Gianni Celati). Sono in grado di innescare suggestioni a catena, possono mostrare ma anche nascondere la realtà, per esempio quando il licenziamento diventa esubero, il femminicidio una dimostrazione di estremo amore e la guerra un'operazione speciale. Dare un nome, trovare una parola, una definizione permette di mettere a fuoco, analizzare, talvolta persino iniziare a capire anche certi fatti, certi gesti, certi comportamenti e stati d'animo il cui senso altrimenti ci resterebbe oscuro, inspiegabile persino inaccettabile. Le parole ci aiutano a rispondere alla Prima Grande Domanda Esistenziale: "Chi sono?" Studente o studente lavoratore, in cerca di prima occupazione, disoccupato o NEET; single, fidanzato, sposato, divorziato, gay, genderless, harleysta, ebreo, vegano, conservatore, nudista, generazione X, Y o Z, alcolista, no-vax, ex fumatore, interista, sorcino, devoto di Krishna o dei Depeche Mode (fate voi). Queste parole sono etichette che individuano un gruppo, una comunità con tradizioni, radici, valori, simboli, miti e riti propri, distintivi e coindivisi, ossia la porzione di realtà in cui ci identifichiamo, il posto a cui apparteniamo e dove troviamo la sicurezza e le risposte che ci mancano. Noi umani siamo esseri sociali e temiamo emarginazione ed esclusione come la peste. Per le altre due Grandi Domande Esistenziali: "Da dove vengo?" e "Dove vado?" vi rimando a due eventuali successivi articoli. Una parola chiara Un'altra questione molto interessante riguarda infine i termini tecnici: parole che fanno riferimento a una realtà ben precisa e codificata. Se la coreografia prevede l'esecuzione di una glissade, non mi aspetto che la ballerina faccia una piroetta (in francese pirouette). Se chiedo a un barman di servirmi un negroni, non ho bisogno di elencare gli ingredienti e mi aspetto che il cocktail non sia sbagliato (...Se facevo l'esempio con il gin tonic veniva meglio!) In alcuni casi però non funziona: cosa sono la "shopping experience" o la "scrittura creativa"? Qui il riferimento a realtà precise e codificate non è così diretto e il perimetro del significato si apre a mille interpretazioni. Queste sono parole "belle" e "di moda", "ruffiane", che "fanno scena" e che è facile applicare qui e là, specialmente quando si ha poco da dire di concreto. Da qui alla supercazzola e al grammelot, il passo è breve. Ma pensiamo anche al latinuorum manzoniano e alla neolingua di Aldous Huxley, al linguaggio dei divulgatori e al politichese di... fate voi, a quanto la parola "bio" su un'etichetta sappia evocare un immaginario bucolico di naturalità, valori etici e buone pratiche. Ecco appunto, pensiamo alla pubblicità e al marketing: chi meglio di un copywriter conosce e sfrutta al meglio i segreti del potere delle parole? E adesso che nome ci metto al mio brand? Il Product Naming è senza dubbio il processo creativo che più è attento al potere della singola parola, proprio perché su una singola parola, al massimo due o tre, si trova a lavorare. Un "bel" nome è fondamentale per catturare l'attenzione del potenziale cliente/fruitore e mette le basi per il successo commerciale. Come si dice: chi ben comincia è a metà dell'opera. Penso sempre all'ammiccante calembour di WhatsApp che ha sicuramente funzionato da potente apripista per la diffusione del servizio. I guru del settore hanno le idee chiare e ci dicono che un "bel" nome per un prodotto o un brand deve essere: • semplice e facile da pronunciare per facilitarne la memorizzazione; • unico, originale e intrigante per non confondersi con la concorrenza; • specifico, coerente e significativo per rimandare inequivocabilmente al prodotto/brand; • flessibile per adattarsi a future declinazioni, nuove strategie e nuovi mercati, multicanalità, brand extension eccetera; • creativo, perché non si può non dirlo; • in grado di raccontare una storia, la tua storia, perché anche lo storytelling non può mancare; • a prova di contraffazione, per evitare di trovarsi implicati in un altro Parmesan Gate. Io invece voglio aprire il mio contributo al tema con un suggerimento assai poco tecnico: il nome del tuo brand deve piacerti e devi immaginare possa piacere anche al tuo pubblico di riferimento. «Alcune cose attraggono la tua attenzione. Altre raggiungo il tuo cuore. Scegli queste.» Recita un messaggio motivazionale che qui calza a pennello. Sfortunatamente in questo caso non ci sono regole da seguire, né esempi da imitare per fare centro, perché è solo una questione di sensibilità, sostenuta da un'approfondita conoscenza del mercato in cui vai a operare. Se usi più parole, cerca un buon ritmo. Prova a ripetere senza interruzione Mulino Bianco Mulino Bianco Mulino Bianco... Se chiudi gli occhi e ti lasci prendere, vieni presto trascinato in un ballo a ritmo ternario (1-2-3, 1-2-3, 1-2-3... Con l'accento in battere sulla sillaba "bia") che fa tanto festa campestre, giusto? Ecco, questo è un nome con un buon ritmo che inoltre richiama il messaggio valoriale del brand. Mi piace come suona il mio brand Un nome descrittivo, che spiega a cosa serve il prodotto (Contramal, Viakal, Svitol...) o qual è la promessa (Sogni d'oro, Libera e bella, Slimfast...), è un nome di immediata comprensione, efficace, chiaro e senza ambiguità, al limite dell'ovvio. Il rischio è però che sia banale e privo di personalità e quindi che non attragga l'attenzione, non provochi il desiderio e alla fine non muova all'acquisto. Per risollevare le sorti di un nome un po' "moscio", puoi provare a prestare attenzione al suono della parola, cercando una concordanza tra forma e contenuto (significante e significato, per gli amici di Saussure). Google, che come sempre sa tutto, anche di naming e fonosimbolismo, ci segnala i lavori del professor Fernando Dogana dell'Università di Milano da cui possiamo scoprire che il suono di ogni lettera comunica una precisa suggestione. Le "consonanti occlusive" (B, C e G dure, D, P, T) evocano, per esempio, forza, aggressività e potere (Attak, Petrus, BioKill...). Mentre il suono delle "consonanti nasali" (Gn, M, N): suggerisce affetto, morbidezza e senso di maternità (Nivea, Pfanni, Mellin...), eccetera. Usando le parole con la giusta sequenza di lettere e quindi il giusto suono, possiamo persino dare l'impressione di qualcosa di grande o piccolo, maschile o femminile, spigoloso o rotondo, lento o veloce, oscuro o luminoso, simpatico o serioso, addirittura la promessa di benefici a breve o a lungo termine. Il brand come simbolo Il lavoro di preparazione al momento creativo per l'invenzione per un nome associativo (altrove anche suggestivo) è più delicato perché non si tratta di lavorare su elementi concreti (cosa è o cosa fa il prodotto o il brand) ma su metafore, analogie o associazioni che sostengono immagini e significati legati strettamente al prodotto o al brand (pensiamo all'industry dell'automotive con esempi come Hummer e Micra o al marchio Nike, la dea della vittoria, che non dice "abbigliamento sportivo" ma fa piuttosto una precisa promessa). Sono comunemente neologismi che basano il loro senso sulla fonetica (l'Inodorina, contro i cattivi odori degli animali domestici, sembra un farmaco; Loctite è la traslitterazione dell'inglese to lock tight, Swiffer è in pratica un'onomatopea) e sulla capacità di entrare in risonanza cognitiva con il destinatario; sono nomi in grado di esprimere una forte personalità e di rivelarsi di grande impatto. Per funzionare davvero hanno bisogno di uno studio approfondito di prodotto, settore e pubblico per identificare le parole chiave da usare. Il mio suggerimento è coinvolgere quante più persone possibile, anche non direttamente interessate, in momenti di brainstorming, anche informali, per raccogliere quanti più stimoli possibile, da elaborare poi con i numerosi strumenti che le tecniche di sviluppo del pensiero creativo mettono a nostra disposizione. Non amo citarmi, ma nel mio sito ho pubblicato una selezione di 7 facili tecniche che possono fare il caso vostro; qui su LinkedIn ho creato inoltre #trucchicreativi. https://corrado-calza.webnode.it/extras/sette-trucchi-creativi/