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La serietà di Faris fa impressione perché sta dentro la sua allegria contagiosa come un seme nascosto, invisibile a occhio nudo: guardandolo, saresti propenso a crederlo molto più semplice, diretto, immediato di quel che è. Basso, robusto, olivastro vanta uno straordinario equilibrio psicofisico: fosse nato altrove, avrebbe potuto utilizzarlo nel lavoro, nello studio, in qualsiasi sport. Crescendo nelle campagne marocchine, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Tutta la sua energia vitale finisce, ancora adesso, in un rigagnolo di fango e zanzare. Vorresti metterlo in guardia e dirgli: non esaurire le risorse, risparmia potenza, evita sprechi, proteggi il talento. Sarebbe come la pioggia sul bagnato: lui, consapevole dei limiti in cui opera, non ne ha bisogno. Sa quello che può ottenere. Dosa lo sforzo. Sceglie i tempi. Non sbaglia una mossa. Se scambiassi con Faris solo qualche chiacchiera, apprezzando l’entusiasmo fanciullesco con cui ti racconta la gita dello scorso anno a Gardaland, mostrandoti la foto che lo ritrae mentre precipita dalle cascate, oppure le sue avventure pomeridiane nei centri commerciali intorno al Raccordo Anulare, potresti addirittura ritenerlo più a suo agio nel Paese dei balocchi che da qualsiasi altra parte, per esempio a scuola. Non è così: dal lunedì al venerdì lavora come meccanico in un’officina specializzata e la mattina trova anche il tempo di seguire le lezioni. Accadde proprio lì, alla lavagna, il nostro incontro. - Perché la Rivoluzione Industriale nasce in Inghilterra? - Avevano cologne, Africa, Merica, Stralia. - Cos’è l’Illuminismo? - L’oumo comencia ragionare con testa, no quore. - Cosa significa analfabetismo? - Voldere che non sei leggi non scrive. Era stato attento alla spiegazione. Aveva copiato il questionario con tale rigore di gomiti sul banco, dita sudate intorno alla penna, testa incassata nel tronco, che le sue risposte rattrappite, anche se giuste, parvero tradirlo, come i movimenti di un corpo spastico. Quelli che erano i frutti acerbi di una lingua ancora parlata male, ancora in formazione, per lui rappresentavano i pegni non rispettati, appuntamenti evitati, sforzi inutili. Autocritico, severo, inflessibile, sapeva quale fosse il traguardo: vederlo ancora lontano lo scoraggiava, gli rubava il fiato. Era abituato, questo lo seppi dopo, a subire punizioni esemplari, laggiù, in quel container sul promontorio, chiamato aula scolastica, che aveva frequentato da bambino: il più delle volte, per evitare il castigo, scappava a piedi sul monte e restava così, rannicchiato fra le rocce, in attesa che venisse l’ora di tornare a casa. Giocava con i sassi. Parlava da solo. Finché un giorno decise di partire. Corressi gli errori, uno per uno, senza fretta, spuntandoli alla mia maniera: segno blu o segno rosso, secondo la gravità. In quel momento, per me, Faris era il centro del mondo: lui se ne rendeva conto. Lo facevo salire sul podio in modo che prendesse atto della sua esistenza. Ad ogni piccolo miglioramento, un accento azzeccato disarmato, equivalevano all’oro. Faris si era fatto male, benché non se ne fosse accorto: sistemando le vocali, lo aiutavo a guarire. Non mi dedicavo a questo per voca, una doppia corretta, un verbo giusto, gli cucivo una medaglia sul petto: il sorriso era un bronzo, La pacca sulle spalle significava l’argento; le mani in alto, come se mi avesse zione missionaria. Il protocollo lo richiedeva, quindi era come se dicessi: è compito di tutti, non si tratta di una mia iniziativa personale, in quel caso sarebbe un evento sporadico. No: ci siamo messi d’accordo. Chi? Noi uomini. Abbiamo trovato questa intesa. Quale? Fare bene il nostro lavoro. Rispettiamola sempre. E poi, sotto sotto, speravo potesse intuire anche il segreto che molti esseri umani scoprono ogni giorno senza riuscire a farlo proprio, perché, qualora ciò accadesse, la vita non sarebbe più la stessa: se io aiuto te, è come se tu assistessi me, e lui venisse incontro a lei, e noi appoggiassimo voi, e loro sostenessero tutti gli altri. Una volta, ci giurerei, questa consapevolezza ci sfiorò come una lama tagliente. - Io, - gli dissi, - non riuscirei mai ad imparare l’arabo nel modo in cui stai facendo tu con l’italiano. Faris alzò gli occhi sorridendo.