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«Vai,» mi sussurrava mio papà, «tu vai. Da solo.» // Laggiù, seduti a tavola nella casa della nonna, quando li avevo lasciati i grandi continuavano a ripetersi che non avevano mai visto nulla di simile. Nulla di simile! Esclamava sempre la nonna, alla sinistra del tavolo. Nulla di simile! Ripetevano il nonno e la mamma, a destra. Ma là in cima al mio olmo, agganciato a quell’ultimo ramo puntato contro al cielo, io non avevo certo tempo per quelle sciocchezze. Tutto si esauriva nel dolore ai palmi della mani, nello schivare i ramoscelli che prima scostavo con delicatezza, ma appena li lasciavo scattavano indietro rimbalzandomi sulla faccia. Gli insetti cicalavano, l'acqua del fontanile sotto di me gorgogliava. Intanto, senza che quasi me ne accorgessi, il ramo si piegava da una parte, fin sul punto di spezzarsi. Poi, come un elastico, scattava fischiando verso l’alto e io mi sentivo leggero. // Il vento tirava a volte dal paese, e allora m’illudevo che potesse portare con sé le voci e le risate della mia famiglia. Papà era l’unico che, come me, si annoiava a quei pranzi. A volte, mi ricordo, lavorava con la forchetta alla sua buccia di banana, usandola come tela per i suoi disegni. Cercando di non farsi sentire, mi diceva spesso la mamma mi ha incollato il culo alla sedia. A me scappava da ridere, ma lui mi zittiva subito con un dito sulla bocca. Poi si avvicinava di nuovo all’orecchio e mi sussurrava: «Janis, vai!», e io sentivo un fremito corrermi dentro. E allora dovevo raggiungere la cima del mio olmo. Dovevo salire sempre più in alto perché pensavo al mio e a tutti i papà con il culo incollato alla sedia, e sapevo che riponevano in me la loro fiducia. E poi, per ultimo, perché lassù si stava bene. Un poco più su, mi dicevo. E il rischio di cadere, la paura del dolore, i ramoscelli che ti sbattono in faccia e gli uccelli che scappano e piano piano ritornano, tutto questo mi teneva compagnia e mi spronava a salire un passo in più. Ma arrivava il momento di uno scricchiolio di troppo, di un modo di piegarsi del ramo che pareva irreversibile. Messaggi, indizi che mi facevano gelare il sudore sulla pelle. Allora iniziavo la discesa verso il fontanile e, già da lassù, indagavo con lo sguardo l'altro compagno delle mie peregrinazioni. Era un bancale di legno grezzo e ammuffito che galleggiava sull'acqua, legato alla riva con una corda di un metro al massimo, ricoperta di alghe e muschi. Pareva una di quelle corde che legano le navi alle bitte, nei porti. E io scendendo la guardavo, la mia amica. Se ne stava là a esistere e marcire, seguendo i flussi delle maree. Perché anche i fontanili, ne ero certo, hanno le maree.