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1 HATE SPEECH E DISINFORMAZIONE – Firenze 3 OTTOBRE Intervento di Carlo Bartoli Prima la pandemia, poi la guerra in Ucraina hanno prodotto, sul piano della comunicazione, una impressionante accelerazione riguardo a due fenomeni presenti da diversi anni sul web e, in particolare, sui social media: hate speech e disinformazione. La pandemia ha fatto registrare una impennata nei discorsi di odio: le pulsioni complottiste e le paure dei “vaccini-chip” si sono intrecciate con la rabbia no-vax. Le invettive digitali si sono indirizzate contro il personale sanitario e contro i giornalisti, rei di provare a raccontare anche le manifestazioni di dissenso e quindi dare voce anche a chi protestava per non avere voce. Un paradosso in piena regola. Si è ben presto passati dalla dimensione digitale a quella fisica, e le minacce, gli insulti e la violenza si sono manifestati non appena è stato possibile riunirsi di nuovo in presenza: aggressioni fisiche, danneggiamenti, ostacolo alle attività professionali. Possiamo dirci fortunati che non siano accadute tragedie. La guerra in Ucraina si è invece caratterizzata maggiormente sul piano della disinformazione anche se, come in tutte le guerre, la prima vittima è stata la verità dei fatti, sottoposti a rigide censure da entrambi i fronti. Occorre dar merito ai giornalisti sul campo, tra i quali tanti italiani, di aver provato a raccontare gli eventi anche al di fuori dei “tour” organizzati dagli eserciti; ma purtroppo, trattandosi di una guerra, non sono mancati morti e feriti anche fra i cronisti. Il giornalista al fronte è divenuto il bersaglio degli eserciti in guerra interessati a eliminare testimoni diretti per poter imporre la propria narrazione priva di possibilità di verifica e di contraddittorio. Questi due grandi eventi che hanno sconvolto il mondo hanno mostrato ancora di più quanto sia invasivo e pervasivo l’ecosistema digitale in cui siamo tutti noi immersi. Eppure nel 2018 Google, Facebook e Twitter, e poi Microsoft e Tik Tok, hanno sottoscritto il Codice di buone pratiche dell’Ue. Nessuno può dire sinceramente di essersi accorto dell’effetto di quelle firme. Anche perché è ormai chiaro che il vero supercarburante del traffico web è costituito da contenuti di odio, discriminazione, falsificazione. Del resto abbiamo accertato la grande efficienza economica del business model delle fake news: bassi costi di produzione, zero costi di distribuzione, esenzione da qualsiasi tipo di tassazione, impunità garantita. Internet e social media condizionano sempre più la nostra vita e gli algoritmi selezionano e premiano, in maniera opaca, quei contenuti che sollecitano reazioni 2 emotive forti e penalizzano quelli che stimolano un dibattito responsabile e approfondito, non urlato. La disintermediazione è il contrario di una informazione responsabile: con la pandemia è caduto il mito che la libera circolazione di qualunque opinione possa immancabilmente generare un risultato virtuoso e valido dal punto di vista conoscitivo. Quasi che, anche nell’ambito comunicativo, ci sia una sorta di legge di natura, una specie di forza gravitazionale in grado di ricondurre qualsiasi pulviscolo comunicativo ad un esito positivo, in grado di far irrimediabilmente approdare sempre e comunque qualunque flusso di opinioni alla verità sostanziale dei fatti. Chiariamoci anche sul concetto di disintermediazione: nel sistema dei social media non esiste la comunicazione diretta, ma solo l’illusione di essa, in quanto sono le piattaforme, attraverso gli algoritmi, la profilazione estrema e l’intelligenza artificiale, a guidare e pilotare l’utente, cioè “a mediare” il flusso informativo. Il supermarket dell’informazione Gli algoritmi dei motori di ricerca non devono rispettare nessuna legge che non sia quella del profitto e producono un “effetto napalm” sul sistema dell’informazione, distorcendo le strategie dei mezzi di informazione che una volta avremmo definito “mainstream” e uccidendo quelli che non hanno alle spalle editori impuri, ossia portatori di interessi altri. Anche per queste dinamiche, la moltiplicazione dell’hate speech è, in parte, un risultato perseguito dalle grandi piattaforme e in parte un effetto collaterale. Del resto, è ben noto, oltre che esperienza quotidiana di tutti noi, il fatto che social e motori di ricerca determinino la creazione di vere e proprie “bolle” al cui interno ci si alimenta solo di ciò che l’algoritmo propone, in base ad una profilazione, come già detto, sempre più invasiva. Bolle che rappresentano il brodo di coltura di comportamenti aggressivi e linguaggi di odio, facile sfogatoio di tensioni sociali e individuali. Le ondate di odio in rete, soprattutto attraverso i social, non sempre sono il frutto casuale di risposte emotive di massa; al contrario, molto spesso vengono “spinte” da agitatori del web – troll e simili – che con grande abilità hanno la capacità di influenzare e sollecitare gli istinti più bassi, indirizzandoli contro bersagli predefiniti o contro categorie di soggetti deboli e più vulnerabili. Immigrati, persone di colore, donne, disabili, ebrei; sono gli obiettivi preferiti dagli agitatori. Poi ci sono quelli che danno fastidio per la loro attività: tra cui anche i giornalisti, soprattutto quando portano alla luce verità scomode. 3 La garanzia dell’anonimato nel web non aiuta certo il contrasto del linguaggio d’odio. Inoltre l’anonimato viene spesso considerato come una sorta di “attenuante” in fase di giudizio nelle cause per diffamazione, e questo non è certo un fattore di deterrenza. Sarebbe piuttosto necessario garantire la chiara riconoscibilità degli account social media. L’assunzione delle proprie responsabilità così sarebbe garantita anche nelle attività digitali che sono ormai la principale dimensione nella quale si svolge la nostra vita, si assicurano i nostri redditi, si garantisce la nostra reputazione. In questo quadro il giornalismo professionale deve fare il massimo sforzo per mostrare il valore aggiunto della qualità dell’informazione, che significa verità sostanziale dei fatti, rispetto della deontologia, approccio etico e pluralismo, ma anche moderazione dei comportamenti e continenza del linguaggio. Ciò non è reso facile per il fatto che anche nelle testate giornalistiche algoritmi e intelligenza artificiale rischiano di sostituirsi al lavoro umano nei media, facendo venir meno la funzione democratica della mediazione giornalistica. Non è reso facile per la scelta di troppe testate di inseguire le modalità comunicative che fanno tendenza sui social: dalla critica al politicamente corretto si passa sempre più spesso all’esaltazione del politicamente scorretto, all’invettiva che si sostituisce al ragionamento, all’estremizzazione dei punti di vista nel tentativo di garantirsi una qualche visibilità, almeno nelle rassegne stampa televisive. Giornalismo e giornalisti Vengo quindi al ruolo specifico del giornalismo. Innanzitutto alcune considerazioni sulle nostre responsabilità dirette in tema di istigazione all’odio o alla violenza. Coinvolgimenti o segnalazioni su comportamenti del genere sono, fortunatamente, pochi, ma non per questo vanno sottovalutati, anche perché rappresentano un potenziale segnale di corruzione dei corretti codici comunicativi elaborati nell’arco di due secoli di giornalismo. L’Ordine dei giornalisti, come prevede la legge, vigila sul corretto adempimento dei doveri degli iscritti all’albo. La nostra carta deontologica è chiara. Certo, continuiamo a registrare anche all’interno della nostra professione intemperanze o partigianerie che spesso, non sempre, vengono sanzionate con provvedimenti disciplinari. Al riguardo devo ancora una volta segnalare l’arretratezza delle norme di funzionamento della nostra disciplina, in particolare la presenza di cinque gradi di giudizio prima che una sanzione passi in giudicato. I tempi imposti dalla legge sono lunghissimi. Per questo siamo tornati a proporre l’istituzione di un Giurì dell’informazione in grado di intervenire tempestivamente nei casi di patente violazione del Testo unico della deontologia, così come i tempi richiedono. Sarebbe inoltre necessaria una norma chiara che 4 consentisse di rendere pubbliche le sanzioni disciplinari, dato che ci sono difficoltà nel darne conto all’opinione pubblica a causa dell’esposizione a possibili azioni risarcitorie da parte del sanzionato a tutela della propria privacy. Il contributo dei giornalisti per arginare disinformazione ed hate speech Il giornalismo professionale, basato su una corretta rappresentazione dei fatti e sulla raccolta ed elaborazione di fonti qualificate, costituisce uno degli antidoti contro il linguaggio dell’odio e dell’intolleranza. Certamente, dal nostro mondo può giungere un contributo maggiore in questo ambito. E non mi riferisco a una generica richiesta di attenzione e di vaglio. Nella gestione dei siti delle testate giornalistiche, così come nei blog tenuti a titolo personale, possono essere adottate delle Policy che scoraggino alla radice ogni intrusione di chi pratica linguaggi d’odio. Non basta la premoderazione dei commenti affidata ad algoritmi che intercettano le parole offensive o volgari e che, per la loro caratteristica, sono facilmente aggirabili. Sarebbe opportuno giungere a stilare, in collaborazione con le istituzioni, delle linee guida la cui adozione potrebbe essere suggerita e incentivata. A mio avviso, il contrasto alla diffusione dell’odio in rete non può avvenire soltanto attraverso convegni o campagne promozionali, ma anche incentivando la creazione di isole web di “free-hate speech” particolarmente connotate anche perché collegate a testate o professionisti la cui rilevanza sia riconosciuta. Abbiamo tentato un dialogo con alcune OTT a questo proposito, riscontrando solo disinteresse e insofferenza rispetto a tutto ciò che non genera profitto.