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Tutta sola, in un campo nevoso. Sprofondata in una nebbia triste, pesante, densa, ascolta i suoi passi nella neve. È l'unico rumore che riconosca. La notte riposa sul muschio e sulle cortecce come una belva pigramente in attesa. Dagli artigli neri scivola il fischio del vento. I rami gemono e i grilli tacciono. La tenebra inghiotte tutti i respiri del giorno. La neve si alza come una frusta, una scossa di freddo le mozza il fiato. Il vortice le morde le guance. Perché non indossa un cappotto? La tenebra apre le fauci di un torrente. L'acqua turbina agitata, corre, schiuma, romba e urla per non ghiacciare, nera che non si vede il fondo, e lei non può tornare indietro, i suoi passi si fermano sul ponticello, quel legno marcio, ghiacciato, ridicolo su quell'acqua nera che galoppa, nera come un ribollire di valanga, nera che la nebbia la nasconde alla luna, nera come la tenebra paziente, nera e feroce. Mette un piede sul legno barcollante e già sente cedere. Allunga una mano nel freddo. Oltre la mano sente soffiare,un cumulo di neve si scuote e dalla tenebra emerge una zampa, artigli aguzzi. Si alza una montagna più scura della tenebra, ma lucente più dell'acqua. Dal pelo arruffato, due pozzi neri la fissano e artigli aguzzi si avvicinano, unghioni lunghi come dita, ricurvi, gentili. E la mano afferra la zampa, e lei tremando fugge dal vortice del torrente oltre la riva, verso la zampa, all'orso. Le dita tremano, il braccio trema, e tremano il petto e le caviglie e i polsi, dall'orso immobile allontana la mano come si toglie da un castello di carte, fremente, sospesa, quasi un gesto di silenzio a nascondere il fracasso del suo sangue. Guarda il fiato caldo uscire dalle narici nere, ghiacciando nell'aria e attende, e al respiro seguente indietreggia di un passo. L'orso inclina l'enorme testa, e come una frana scendono una zampa, e l'altra, e tutto il corpo scuro torna nella neve candida. Lei si spaventa, inciampa. E prima di vederlo muoversi ancora, s'è voltata e sta correndo nel sentiero più veloce che può. Corre, balzando da una roccia all'altra, più svelta che può, calpestando rami e ghiaccio, vorrebbe guardare indietro ma le manca il coraggio, corre come non ha mai corso, corre che ne va della sua vita, sente il suo fiato alle spalle e corre dove ormai non c'è più sentiero, sente il rugliare e scappa in mezzo al fogliame gelato, il bosco si fa più fitto e la coltre più bianca e tenebra più nera e l'orso dietro, scivola come un'ombra sugli stecchi che lei calpesta, allarga morbidamente le sue impronte nella neve, l'orso non s'accorge degli schiaffi del vento e delle frustate dei rami che lei sente stridere sul collo, sulle caviglie, all'orecchio mentre le cade lo scialle, mentre si slaccia una scarpa, mentre la febbre sale alla fronte, mentre il fiato manca, mentre una radice o del ghiaccio o la fretta le prende un piede e lei è a terra, nella terra nera, nella neve muta, non ha forze e sente il fiato della belva ansate, vuole coprirsi il capo ma le braccia son come morte, si volta a guardare il muso che si avvicina e nel muso quei pozzi neri, come perle nere, come laghi neri e non riesce a urlare. E la zampa cala su di lei, e lei si sente sollevare. Il suo corpo ha lasciato la neve, affonda nel pelo dell'orso, portato dalle zampe enormi come una bambina porta una bambola. E mentre non osa respirare lui l'avvolge, e quando lei s'abbandona lui procede il cammino, portandola avanti e avanti ancora, nel fitto della boscaglia. E l'orso procede attraversando come vento impetuoso la selva intricata, i turbini di neve e il buio crudele, quando ecco, una luce. Una luce calda, una casetta, una capanna quasi, e il finestrino di una porta, e le zampe che la lasciano dolcemente sull'uscio dicendo: “qui ti potrai scaldare.” L'orso sparisce, e lei spia dalla finestra, sentendo un gran vociare, grida, bicchieri che sbattono e colpi a un tavolo. I suoi occhi affondano in una schiera di mostri mai vista. Creature ibride, cornute, squamose brindano e cantano, e per terra e sul tavolo ballano piedi, artigli e zoccoli, per aria volano ali, criniere, berretti. C'è un muso di cane, una barba di strega, dorsi irsuti e zampe pelose, scheletri che saltano e piume che sventolano. E le voci umane, l'abbaiare, fischi e berci e risa e botti! E mai avrebbe/avresti immaginato nulla del genere, quelle creature incredibili, quell'orrore, quei volti, quei volti non li può/puoi guardare, eppure non ne stacca/stacchi gli occhi, è avidità di orrore, meraviglioso disgusto, avversione, fascino, ribrezzo, e non vorrebbe/vorresti vederli perché non li scorderà/scorderai mai, e non può/puoi non guardarli perché non li vedrà/vedrai mai più, fulgido incubo, terribile miracolo, è troppo per due soli occhi, e il rumore è troppo per un solo cervello e in mezzo a tutto c'è lui, nel delirio c'è lui come un taglio, come una ferita, vede/vedi il suo volto in mezzo ai mostri come uno squarcio, un urlo, un tizzone. Prima che possa tenere il respiro, prima che possa placare l'affanno, prima che inghiotta in gola tutti i battiti del cuore, ha sentito. E i mostri balzano sulla preda/“è mia!”