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Scrive Seneca nella seconda lettera a Lucilio “… forse non ti pare che la lettura di molti autori e libri di ogni genere riveli una certa incostanza? Infatti se vuoi ricavare qualche idea che ti si imprima durevolmente nell'animo devi essere in grande dimestichezza con determinati scrittori e di essi nutrirti. Chi è dappertutto non è in alcun luogo, passa la vita vagabondando trova molti ospiti ma nessun amico”. Seneca poi ricorda una metafora che spiega come fare proprio ciò che si legge e che diventi nutrimento allo spirito: è la metafora del cibo dove egli paragona l'uomo che passa distrattamente da una lettura all'altra, ad un uomo che mangia smodatamente e non digerisce a dovere, non assimilando i nutrienti che elimina indigeriti. Attingere a troppe fonti significa dissipare la concentrazione e quindi la qualità dell'apprendimento. Per rimediare alla dispersione e alla disattenzione gli antichi raccomandavano la meditazione della lettura e la scrittura. La meditazione non era intesa un’esegesi, cioè il cercare di capire il significato del testo, mai un appropriarsi del pensiero che provocava corrispondenza e risonanza nel lettore affinché fosse possibile non solo conservare quel concetto ma poterlo rendere il soggetto di un principio d'azione. Meditare su una lettura inoltre non significava semplicemente interrogarsi sul suo contenuto ma anche immedesimarsi mettendosi alla prova attraverso il suo esercizio, un esercizio di pensiero che possa essere il soggetto d'azione quando la vita lo richiedesse. In questo senso la lettura va di pari passo con la meditazione, quindi non ci può essere una buona lettura senza meditazione di essa. La lettura attraverso la meditazione oltre che esercizio astratto del pensiero si concretizza in una esperienza. Con la meditazione della lettura se ne sperimenta il carattere funzionale, si acquisisce il suo contenuto non per effetto sul pensiero ma per identificazione in quello che rappresenta il contenuto. L'esercizio di pensiero come contenuto dell'esperienza lo ritroviamo nel romanzo attraverso l'immedesimazione con il personaggio, nella filosofia nell’adesione al comportamento legato alla buona riuscita della vita. Ma la meditazione non rappresenta il solo esercizio per appropriarsi del vissuto di una lettura, occorre praticare anche la scrittura. Sempre Seneca nelle sue lettere a Lucilio consiglia di alternare alla lettura la scrittura per stemperare il consumo dell'energia che essa attiva nella mente. La scrittura rinforza la lettura dei testi costruendo un corpo solido e coerente di proposizioni che possono fungere da principi di comportamento nella vita. Ma come inserire la scrittura nella lettura? Epitteto invita a mettere per iscritto quelle frasi che incontrate nella lettura ci sembrano importanti consigli da custodire e seguire, in maniera che rimangano a disposizione del pensiero più lungo e più stabilmente, potendoli in seguito metterli in pratica. E’ come se la scrittura anticipasse l'atto di realizzazione del pensiero. Ma non è solo importante fare annotazioni durante la lettura, ma anche scrivere e scambiarsi lettere. La pratica della cura di sé per gli antichi richiedeva un rapporto con gli altri e la scrittura di una lettera era una forma di una relazione di feedback più che una generale relazione confidenziale, prescrittiva di un interesse reciproco circolare più che soltanto una comunicazione di sentimenti. La corrispondenza rappresentava un controllo degli atti compiuti, una ratifica che aveva una forma formativa. Marco Aurelio nelle sue lettere fa un racconto della sua giornata e il contenuto delle sue letture non si differenzia molto da un esame di coscienza, il cui controllo, un giudizio di coerenza e di approvazione consisteva nella ratifica dell'atto esposto nelle lettere all'amico, dove una disapprovazione ben ponderata anche se rendeva pubblico un deficit aiutava nel rapporto con se stesso. Certamente in questa forma di corrispondenza all’amico c'è un legame affettivo, ma non si tratta di una banale comunicazione di sentimenti, il riscontro riguardo i propri comportamenti perché sono i comportamenti che costruiscono e formano il sé. Plutarco arriva a dire che perfino i nemici in questo senso ci sono utili perché gli amici tendono troppo spesso a essere tolleranti e comprensivi a sospendere ogni critica, a non sollevare obiezioni, l'amico evita se può lo scontro, spesso tace ed è proprio a lui che bisogna quindi fare attenzione, mentre i nemici sebbene possano enfatizzare per ferirci un difetto, che però abbiamo davvero, anche solo il sospetto che sia vero ci aiuta a correggerci.