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Per incominciare, sottraggono la Corona ai capricci dell’elezione, si alleano alla Chiesa e proteggono il popolo minuto. Fanno regnare la giustizia, stabiliscono l’ordine e la pace. Sono i capi della difesa pubblica e i liberatori del Paese; combattono di volta in volta gli inglesi, i tedeschi, gli spagnoli, gli austriaci. Con la durezza di un proprietario terriero che amplia il suo dominio, riconquistano l’eredità carolingia. Ogni regno, o quasi, segna una tappa della ricostruzione. Sotto Luigi XIV, si lotta ancora alla frontiera settentrionale, sempre troppo vulnerabile e troppo vicina a Parigi. Vengono annessi l’Artois, la Fiandra, l’Alsazia e, all’altro capo della Francia, il Rossiglione. Sotto Luigi XV, la Lorena e la Corsica. Ma questo bel Paese, non basta conservarlo e ingrandirlo, bisogna anche valorizzarlo. Il re costruisce strade, traccia canali, scava porti, argina fiumi, apre scuole e ospedali, protegge università ed accademie. I suoi interventi culturali e sociali lo proclamano a gara padre della patria e pubblico benefattore. Quando gli antichi scrittori francesi parlano del re, sembrano colti da una devozione soprannaturale. Egli è, dicono, il primo tra i Re. Nessun sovrano è paragonabile a lui, né per l’antichità della corona, né per lo splendore del trono, né per l’estensione e la santità del suo potere. È un personaggio divino che tutta la nazione onora e serve con gioia: «Tutto lo Stato è in lui,» scrive Bossuet «la volontà del popolo è compresa nella sua; come in Dio è riunita ogni perfezione e virtù, così tutta la potenza dei singoli è riunita in quella del Principe…». Si diceva correntemente in Europa che il francese era «ebbro d’amore per il suo re». Il maresciallo Marmont, nato quindici anni prima della Rivoluzione, racconta, in un celebre passo delle sue Memorie, quale prestigio avesse ancora Luigi XVI negli ultimi giorni della monarchia: «Avevo verso il Re un sentimento difficile da definire, un sentimento di devozione di carattere religioso. La parola del Re aveva allora una magìa e un potere che nulla aveva potuto alterare. Nei cuori retti e puri, questo amore diveniva una specie di culto». E veniva citata con compiacimento questa frase di un ambasciatore veneto del XVI secolo: «Il regno di Francia è sempre stato riconosciuto, per consenso unanime dei popoli, come il primo e più eccelso regno della cristianità, sia per la sua dignità e potenza che per l’autorità assoluta di colui che lo governa». Ma queste sono solo parole, e parole il cui senso è cambiato più volte, poiché gli uomini non hanno dell’autorità un’idea unica e invariabile, ma l’intendono anzi in modi mutevoli e diversi. La maniera in cui la nazione si era formata per annessioni successive sulle rovine della Francia feudale imponeva al potere regio, teoricamente senza limiti, caratteristiche e restrizioni che noi, cittadini di uno Stato burocratico, napoleonico e semi-nazionalizzato, stentiamo a comprendere. L’autorità ci si presenta oggi sotto le sembianze di un funzionario seduto a una scrivania e investito dei più ampi poteri, tra cui quello di trasformarci in soldati e spedirci sui campi di battaglia a farci bersagliare dalle pallottole. Questo personaggio è eterno, immutabile, identico a se stesso da un capo all’altro del Paese. In pianura e in montagna, nell’Île de France e in Lorena, egli applica i medesimi regolamenti e percepisce le medesime imposte. È onnipotente perché la sua specie è numerosa, perché tutti hanno bisogno di lui, perché i suoi decreti sono sostenuti da una polizia attiva, una magistratura vigile e un immenso apparato coercitivo. Egli censisce, registra, spia. Calcola i nostri redditi e fa l’inventario delle nostre eredità. Sa se possediamo una radio, un cane o un’automobile. Egli istruisce i nostri figli e fissa il prezzo del nostro pane. Fabbrica i nostri fiammiferi e ci vende il tabacco. È industriale, armatore, commerciante, assicuratore e medico. Possiede quadri, foreste, ferrovie, ospedali, banche e officine. Gestisce la beneficenza. Se siamo di sesso maschile, ci convoca, ci pesa, ci misura, esamina il funzionamento del nostro cuore, dei nostri polmoni e della nostra milza. Non possiamo fare un passo o un gesto senza che egli ne sia avvertito, senza che trovi il pretesto per intervenire. Senza contare le industrie nazionalizzate, almeno un milione di francesi sono al suo servizio, due o tre milioni ricevono pensioni da lui e gli altri aspirano a riceverle. Tutti brontolano, ma obbediscono, e quando uno dei suoi agenti viene malmenato da un elettore scontento, una voce unanime si leva a deprecare quest’audacia, a chiedere prigioni e giudici per punire il sacrilegio. Questo concetto di un governo burocratico servito da un esercito di funzionari, e che promulga un’unica legislazione per una nazione di amministrati, è forse quanto di più estraneo all’Antico Regime si possa immaginare. I più grandi riformatori, i più appassionati sostenitori dell’unità della nazione, Colbert, Machault, Maupeou, Lamoignon, non avrebbero potuto nemmeno immaginare una simile uniformità e docilità. Napoleone, in seguito, ha costruito il suo nuovo edificio su un terreno livellato, a forza di decreti. Dopo di lui, i progressi nelle comunicazioni e nelle informazioni hanno rafforzato ulteriormente l’ombroso autoritarismo del potere centrale. La monarchia invece, mediante imprese lentamente concepite e lentamente attuate, passo per passo, aveva riunito alla Corona vecchie province che avevano ciascuna la propria organizzazione e i propri costumi. Ed essa ne aveva rispettato le particolarità. Il regno era uno nella persona del principe, multiplo nelle sue istituzioni. Nel 1668, dopo la prima conquista della Franca Contea, Luigi XIV firmò con i rappresentanti del Paese un capitolato il cui primo articolo dice: «Ogni cosa rimarrà in Franca Contea nel medesimo stato in cui attualmente si trova, per quanto riguarda privilegi, franchigie e immunità». Una clausola garantiva il rispetto delle leggi e degli editti in vigore sotto la dominazione spagnola; un’altra vietava l’introduzione di nuove imposte; un’altra ancora conservava a Besançon la sua Accademia. Dole otteneva di essere la sede delle riunioni degli Stati… e infine, l’atto terminava con questa dichiarazione: «Sua Maestà promette e giura sui Santi Vangeli che Ella e i suoi augusti successori conserveranno e manterranno con cura e lealtà ogni e qualsivoglia loro privilegio, franchigia e libertà, antico possesso, usanza, costume e ordinamento, e che in generale Ella farà tutto ciò che un Principe e Conte Palatino di Borgogna è tenuto a fare». Ampliate quest’esempio, raffiguratevi le province, le città, le classi, le associazioni, i mestieri, le cariche, tutti provvisti di carte, diritti, immunità, statuti di ogni entità e di ogni natura, e avrete un’idea di ciò che era la Francia di Luigi XV e di Luigi XVI, e del modo in cui poteva essere esercitata la volontà reale. Nonostante l’immane sforzo di semplificazione compiuto sotto Luigi XIV, ad ogni decisione del governo continuava ad opporsi una massa di tradizioni, di contratti, di promesse, di diritti acquisiti di cui si era costretti a tener conto. Bisognava discutere, comporre, accordare delle riduzioni, degli esoneri e delle eccezioni. Anche gli ordini più formali finivano corretti ed emendati da questo insieme di pratiche contro le quali non c’era nulla da fare e che, insieme alla successione al trono per ordine di primogenitura, costituivano propriamente quelle «leggi fondamentali» del regno, sempre invocate, sebbene mai scritte, mai presentate e mai promulgate. I ministri si lamentano continuamente delle difficoltà di governare uno Stato composto di organismi e di cittadini così pronti a bloccare le iniziative del loro re: «Non si può muovere un passo in questo vasto reame» diceva Calonne «senza trovarvi leggi diverse, usanze contrastanti, privilegi, eccezioni, esenzioni d’imposta, diritti e pretese di ogni sorta», e, da ministro autoritario e riformatore, aggiungeva: «Questa dissonanza generale complica l’amministrazione, ne interrompe il corso, ne inceppa i meccanismi e moltiplica ovunque le spese e il disordine». Prendiamo un esempio. All’inizio del XVIII secolo, certi amministratori delle province di confine, desiderosi di affrettare la riparazione delle strade più dissestate, requisirono gli uomini che abitavano nelle vicinanze e li adibirono a questo lavoro. Poiché i risultati parvero soddisfacenti, il sistema delle corvées si diffuse a poco a poco. Nel 1737, il controllore generale Orry invitò i suoi subordinati a generalizzarne l’impiego e propose un modello di regolamento. Però, non si poteva certo pensare di imporre queste prestazioni ai nobili o agli ecclesiastici; le città, che dovevano già per proprio conto riparare le vie e le piazze, vi sfuggivano anch’esse; tra i cittadini, poi, avrebbero pagato solo quelli che possedevano fattorie o case di campagna. Sarebbero stati anche esentati gli ufficiali giudiziari, i funzionari delle finanze, le guardie forestali, gli operai della zecca, i fattorini delle messaggerie e, in generale, tutti gli individui che si voleva risparmiare e trattenere perché contribuivano alla prosperità della loro provincia. L’intendente della Provenza, per esempio, esenta gli operai delle fabbriche d’armi, i fonditori e gli affinatori. Nel Poitou, sono i cartai ad essere dispensati. In alcuni posti si applica la corvée con rigore, in altri con tolleranza. Altrove, non la si impone per nulla.