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1 L’antico regime La Francia dell’Antico Regime era un edificio molto grande e molto antico costruito da cinquanta generazioni nel giro di oltre mille e cinquecento anni. Ciascuna vi aveva lasciato la propria traccia, sempre aggiungendo qualcosa al passato senza demolire o escludere quasi nulla. La pianta dell’edificio era pertanto confusa, gli stili disparati, irregolari le parti che lo componevano. Certe ali abbandonate minacciavano di crollare, alcune erano scomode, altre troppo fastose. Ma l’insieme era ricco, la facciata grandiosa, e ci si viveva meglio e più numerosi che altrove. Le fondamenta più antiche erano opera della Chiesa. Nel corso di dodici secoli, essa vi aveva lavorato da sola o quasi. Al tempo di Roma, in un mondo duro e freddo, la Chiesa aveva consolato dalle sventure, infuso il coraggio di vivere, l’abnegazione, la carità, la pazienza, la speranza in una vita migliore e più giusta. Quando l’Impero si era sgretolato sotto i colpi dei barbari, essa era divenuta il rifugio delle leggi e delle lettere, delle arti e della politica. Aveva protetto nei suoi monasteri quanto si poteva salvare della cultura umana e della scienza. In piena anarchia, aveva organizzato una sua società viva e ordinata il cui spirito e la cui politica richiamavano i vecchi tempi tranquilli e ne suscitavano il rimpianto. Ma non solo: la Chiesa va incontro agli invasori, e li conquista, li rappacifica, li converte, ne incanala il flusso, ne limita la devastazione. Dinanzi al vescovo, rappresentante di un aldilà misterioso, il germano ha paura e si ritrae. Risparmia la gente, le case, le terre. L’uomo di Dio diventa il capo delle città, il difensore dei focolari e dei lavori, il solo protettore degli umili sulla terra. Più tardi, passato il momento dei saccheggi e degli incendi, quando si dovrà ricostruire, amministrare, negoziare, le assemblee e i consigli apriranno le porte ai clerici, i soli in grado di redigere un trattato, di portare a termine un’ambasceria, di pronunciare un’arringa dinanzi a un principe. Al rinnovarsi delle sventure, quando lo Stato carolingio si sfascia, nella notte del IX secolo piena del fragore delle armi, mentre nuove invasioni di ungari, saraceni e normanni si affacciano ai confini o sciamano per il Paese, mentre il popolo sparso fluttua senza una direzione, la Chiesa, ancora una volta, resiste. Essa riannoda le tradizioni interrotte, contrasta i tumulti feudali, regola le guerre private, impone tregue e paci. I grandi monaci Oddone, Odilone, Bernardo elevano, al disopra delle roccaforti e delle città, il potere morale della Chiesa, l’idea della Chiesa universale, il segno dell’unità cristiana. Predicatori, pacificatori, consiglieri di tutti, arbitri in ogni contesa, intervengono ovunque e in ogni problema, vere potenze internazionali cui i potenti della terra non resistono che tremando. Intorno ai grandi santuari e alle sacre abbazie si annodano relazioni e viaggi. Lungo le piste di terra percorse dalle lunghe processioni dei pellegrini nascono le canzoni epiche. Indietreggiano le foreste, dissodate dai monaci. All’ombra dei monasteri, le campagne si ripopolano. Risorgono villaggi in rovina. Le vetrate delle chiese e le sculture delle cattedrali sono il libro d’immagini che istruiscono il popolo. Il papa è il dittatore dell’Europa. Ordina le crociate e depone i re. Dotazioni, ricchezze, onori, tutto viene messo ai piedi degli ecclesiastici, e l’eccesso di questi riconoscimenti attesta da solo la misura delle loro opere. Ma già un altro artefice si era messo in azione: il signore feudale. Quando lo Stato si indebolisce, gli individui meglio armati ne prendono il posto. Quando lo scettro di Carlomagno sfugge dalle mani deboli dei suoi successori, una generazione di soldati si leva a raccoglierne i pezzi. Al pari del territorio, si sbriciola la sovranità. Una fitta germinazione di poteri locali ricopre il suolo. Funzionari imperiali, grandi proprietari, avventurieri che hanno fatto fortuna, briganti che hanno cambiato mestiere: questi nuovi reucci hanno mille origini. Violenze, soprusi, contratti, immunità, spartizioni, alienazioni, operanti secondo il capriccio delle circostanze: ecco le fonti instabili e incoerenti della loro forza. Tutte le mansioni del potere pubblico divise, frazionate, vendute, rubate. Chi s’impadronisce di un pedaggio, chi di un mercato. Non ci sono più eserciti, solo bande armate. La giustizia si spezzetta in mille giurisdizioni particolari: territoriale, personale, censuale, alta e bassa. Gli animi si dissolvono come i diritti. Un’unica forza permane: il valore, il coraggio, l’audacia, la brutalità dell’individuo. L’insicurezza è generale. Ci si batte dappertutto. Le cronache non parlano che di assassinî, di saccheggi, di incendi, di villaggi rasi al suolo, di donne violentate, di contadini massacrati. Per i deboli, la vita non è altro che un lungo terrore. Intorno al signore che ha un castello, dei soldati, un tesoro, corrono a raggrupparsi i contadini. In cambio della sua protezione e della sua giustizia, gli cedono parte del proprio lavoro e dei propri raccolti. I più sfortunati legano a lui la propria vita e quella dei propri discendenti. Costruttore del mulino, del forno e del ponte, egli è il padrone del traffico e degli scambi. Avvolge l’attività dei suoi clienti e dei suoi servi in una fitta rete di tasse e di monopoli. Ma cosa sono queste servitù in confronto alla vita che gli devono? A una società smarrita, smembrata, dispersa, senza più leggi né guida, il feudalesimo ha dato delle strutture e dei capi. Per quanto anguste fossero le prime, sono riuscite a riunire la gente. Per quanto violenti fossero i secondi, essi hanno ristabilito le garanzie elementari senza le quali è impossibile sopravvivere. Il servizio che i signori richiedono è oneroso, i loro benefici eccessivi. Ma senza di essi, la situazione sarebbe ancora peggiore. In seguito, il regime diventerà più mite, più umano. La Chiesa vi apporterà un po’ di ideali. Si aprirà uno spazio per i Comuni, che saranno simili a signorie borghesi e collettive. Con l’espansione a macchia d’olio del movimento di emancipazione, i rudi baroni capiranno che i propri interessi coincidono con quelli dei loro protetti e che averne cura è ancora il mezzo migliore per trattenerli al proprio servizio. Ai tempi di Luigi XII, in un Paese che non ha più bisogno della protezione dei signori e che fa già a meno dei loro servizi, essi conservano una così grande autorità nel villaggio che nulla si fa d’importante senza il loro parere e consenso. Sono oggetto di un rispetto familiare e di una riconoscenza spontanea. Li si invita alle feste di famiglia, ai banchetti di purificazione della puerpera, alle nozze e ai battesimi, ed essi vi fanno onore. Sono padrini dei figli e consiglieri dei genitori. Nell’antica fortezza ormai aperta verso l’esterno, interrotta da ampie finestre, senza più fossati né difese, la vita è simile a quella che si conduce nelle casupole intorno, uguali sono le preoccupazioni. Si pensa ai raccolti, al bestiame, alla pioggia, alle vigne, alla vendita del grano. Signori e villani si ritrovano alla fiera. Se la giornata è stata buona, trincano alla locanda, scambiandosi battute grossolane e gran pacche cordiali tra un bicchiere e l’altro. Al cader della notte, si vede rincasare il signore, fieramente piantato sul suo ronzino, con la spada al fianco e un pane sotto il braccio, e il suo fattore in sella dietro di lui. Tutto questo non era però che una sopravvivenza del passato: le sovranità locali erano colpite a morte, e ormai da tempo era giunto il momento del re. Il re fu innanzitutto l’artefice dell’unità nazionale, e la sua potenza si accrebbe man mano che nella coscienza popolare il sentimento di tale unità diveniva più imperioso. Ma il compito non era da poco, e prima che le molte parti divise della patria venissero riaccostate e saldate, passarono molti secoli e molte pene. Il primo Capetingio era un signorotto di ben poca importanza, la cui ambizione consisteva nel potersi recare da Parigi a Etampes senza essere rapito né taglieggiato. I tre successivi si lasciarono coinvolgere in imprese superiori alle loro forze, e non fecero progredire di molto gli affari della monarchia. Il quinto, Luigi VI, capì che essa doveva concentrare la propria azione entro un piccolo spazio, restringere il proprio ruolo e assumere per un certo tempo le sembianze di una signoria territorialmente limitata. Egli passò vent’anni del suo regno a liberare i dintorni di Parigi dai briganti che vi imperversavano, e fu un trionfo il giorno in cui furono rese sicure le strade per Orléans e Melun. La monarchia aveva guadagnato in solidità quanto aveva perso in estensione. Attiva e audace, ottenne per la prima volta quel prestigio che non deriva dalla maestà del rango o dalla gloria delle tradizioni, ma dal valore personale, dalla forza e dal successo. Il meccanismo era avviato. Senza dubbio, i Capetingi ebbero anche fortuna. I primi lasciarono tutti dei figli, raramente nella minore età. Le Crociate li sbarazzarono dei vassalli più turbolenti. Alcuni dei loro avversari, tra cui Riccardo Cuor di Leone, morirono al momento giusto. Ma questi re ebbero soprattutto buon senso, probità, perseveranza, energia, senso della realtà e gusto dell’amministrazione.