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In questo paper l’argomento principale sono le conseguenze che la globalizzazione e la modernizzazione hanno causato nei paesi in via di sviluppo. Si può affermare che da una parte abbiano favorito i processi di integrazione, ma dall’altra hanno anche accresciuto fenomeni come l’esclusione sociale e l’informalizzazione (Il processo mediante il quale un lavoro è svolto in condizioni caratteristiche di economia informale, cioè una in cui le attività economiche sono al di fuori di una regolamentazione formale). L’articolo propone una prospettiva alternativa, una “tranquilla invasione dell’ordinario” che potrebbe essere utile per esaminare l’attivismo dei subordinati urbani nelle città del Terzo Mondo. il passaggio storico alla periferia dai regimi socialisti e populisti alle politiche economiche liberali, attraverso i Piani di aggiustamento strutturali ha portato all’erosione del welfare state. Pertanto, milioni di persone del Sud del mondo hanno dovuto fare affidamento solo più alle loro abilità per sopravvivere. La riduzione della spesa per i welfare state ha prodotto tutta una serie di conseguenze, per esempio la riduzione delle spese pubbliche per l’istruzione, per i programmi sociali, per l’assistenza sanitaria. Tutte conseguenze che hanno portato non pochi problemi alle persone di questi paesi. Inoltre, la privatizzazione ha portato i settori pubblici a licenziare molte persone. Dunque, un gran numero di persone della classe media sono stati spinti vero i ranghi dei poveri urbani. Tra gli studiosi dei problemi associati all’urbanizzazione (es. criminalità urbana, migrazione, dualità culturale, condizioni dei centri urbani…) si è condivisa l’idea che molti immigrati erano “marginali”, un tratto radicato nella loro struttura sociale. La personalità marginale era una manifestazione di ibridazione culturale, di chi vive ai margini di due culture senza esserne un membro a pieno titolo. La modernizzazione urbana e la migrazione nei paesi in via di sviluppo avevano causato una drammatica espansione degli insediamenti urbani impoveriti; e si pensava che il crescente “sottoproletariato” urbano fornisse un terreno fertile per la diffusione dei movimenti di guerriglia radicali, che nel mezzo della Guerra Fredda erano percepiti come un pericolo per gli interessi politici degli Stati Uniti e per quelli delle élites locali. La zona latinoamericana era invece stata presa come oggetto di studio per confermare le teorie sul sottoproletariato urbano (e i suoi relativi comportamenti sociali). Molti vedevano la “politica dei poveri” nei termini binari della dicotomia rivoluzionario – passivo, limitandone di conseguenza le possibilità guardare la questione sotto una luce diversa. I dibattiti che ne sono conseguiti si sono galvanizzati in quattro prospettive diverse: Passive Poor 🡪 anche se alcuni osservatori del paradigma funzionalista vedevano la classe povera come “una miccia pronta ad esplodere” con sentimenti rivoluzionari, in realtà molti vedevano ancora i poveri come un gruppo politicamente passivo che lottava semplicemente per riuscire a campare. Tra questi c’era Lewis che elenca le componenti della cultura della povertà: sradicamento, inadattabilità, tradizionalismo, criminalità, mancanza di ambizione, disperazione, ecc… Questa cultura è stata la prospettiva dominante per molto tempo, e si pensava spiegasse come i poveri gestissero la povertà. In realtà Lewis è stato criticato da molti studiosi per essere uno studioso della classe media che incolpava i poveri per la loro povertà e passività e dimostrando che questo Mito della Marginalità fosse un prodotto della struttura sociale capitalista. Surviving Poor 🡪 il modello della “strategia della sopravvivenza” fa un passo avanti e sostiene che, sebbene i poveri siano impotenti, non stanno seduti ad aspettare che il fato determini le loro vite. Ritiene che essi siano attivi proprio per garantire la loro sopravvivenza. Per esempio, per contrastare l’aumento dei prezzi o la disoccupazione ricorrono spesso al furto, all’accattonaggio, alla prostituzione o al riorientamento delle proprie abitudini al consumo. Per far fronte alla guerra scappano dai dai loro luoghi di origine anche se l’emigrazione è sconsigliata dalle autorità. Il problema è che porre un’eccessiva enfasi su questo tipo di modello rischia di contribuire a far mantenere l’immagine dei poveri solo come vittime, negando loro qualsiasi agency. Anche i poveri spesso si sforzano di resistere e di fare progressi nella loro vita quando se ne presenta l’opportunità. Ma a parte questo, è stato dimostrato come in molte parti del mondo le comunità dei poveri si organizzino con politiche controverse per crearsi delle opportunità di avanzamento. La nozione di empowerment di Friedmann descrive bene l’autorganizzazione dei poveri per la loro sopravvivenza collettiva attraverso l’istituzione della famiglia come elemento centrale per la produzione del sostentamento e l’uso del loro tempo sociale (tempo libero, socialità, associazioni). Political Poor 🡪 in questo modello (sulla base degli studi fatti in America Latina) si sostiene che i poveri non sia marginali, ma bensì emarginati: sfruttati economicamente, politicamente repressi, socialmente stigmatizzati e culturalmente esclusi da un sistema sociale chiuso. I poveri partecipavano alla vita politica e alle attività economiche tradizionali, tant’è che “organizzazioni” come le mense dei poveri, le organizzazioni dei consumatori, i barrios e tanti altri esempi possono essere considerati come manifestazioni dei movimenti organizzati e territoriali dei poveri che lottano per la “trasformazione sociale”. Questo, dunque, smentisce gli argomenti della “cultura della povertà” e delle “strategie di sopravvivenza”. Ma questo modello è stato studiato e identificato nelle società latinoamericane; infatti, se consideriamo il MO non lo si può ritrovare o comunque questi movimenti organizzati della società civile non sono molto comuni. In Medio Oriente la prevalenza di regimi autoritari diffidenti nei confronti delle organizzazioni civili insieme alla forza dei rapporti familiari e di parentela rendono la solidarietà primaria più importante di quella secondaria, quella delle associazioni e movimenti. Alcuni studiosi tendono a presentare i movimenti islamisti nella regione come il modello mediorientale dei movimenti sociali urbani, ma il fatto è che l’islamismo spesso tende a mobilitare non i poveri, ma soprattutto la classe media istruita (perché li considerano i principali agenti del cambiamento politico). Ma è solamente in casi eccezionali (situazioni di crisi e rivoluzionarie) che vengono incoraggiate la mobilitazione e le politiche contrastanti 🡪 come è successo in Iran e in Algeria. Resisting Poor 🡪 paradigma della resistenza: la nozione di resistenza sottolinea che potere e contro-potere non sono in opposizione binaria, ma vanno di pari passo. Dove c’è potere c’è resistenza. In realtà questa resistenza riguarda attività quotidiane di piccola scala. Per esempio, secondo questo paradigma, il velo delle lavoratrici musulmane non deve più essere visto come una costrizione o sottomissione, ma piuttosto viene visto in termini di protesta e cooptazione. A volte invece sia il non portare il velo che portarlo possono essere considerati entrambi simboli di resistenza. Dunque occorre riconoscere il valore di un attivismo più flessibile, su piccola scala e burocratico anche a volte. Questo paradigma deve affrontare una serie di problemi concettuali e politici. Per esempio, bisogna chiarire cosa si intende con il termine “resistenza”, e a quello ci pensa James Scott: per resistenza di classe si intende qualsiasi atto da parte dei membri di una classe subordinata che è o è inteso a mitigare o negare pretese fatte dalla classe di superiori (es. tasse, rendite). Però dunque se si intendesse letteralmente qualsiasi atto non si dovrebbero più fare distinzioni, per esempio, tra un atto di resistenza che vede il leggere una poesia ad alta voce e magari un altro atto di resistenza che include la lotta armata? Sono davvero la stessa cosa? Per risolvere questo dubbio Scott concorda con gli studiosi critici del suo paradigma che si debba fare una distinzione dei diversi atti di resistenza che possono essere: a) reale🡪 atti organizzati con rivoluzionarie conseguenze; b) simbolica 🡪atti incidentali disorganizzati senza alcuna conseguenza rivoluzionaria. Fa questa distinzione specificando però che la resistenza simbolica non sia meno reale di quella “reale”. Bayat valuta la politica degli emarginati urbani nei paesi in via di sviluppo da un’angolazione diversa, in termini di “invasione silenziosa dell’ordinario”. Per invasione silenziosa si intende l’avanzamento silenzioso, prolungato ma pervasivo della gente comune verso i potenti al fine di sopravvivere e migliorare le proprie vite. Questo è contrassegnato dalla mobilitazione silenziosa, in gran parte scandita con azioni collettive. Quando parla di invasione silenziosa l’autore si riferisce ad alcuni esempi specifici: i lunghi processi in cui milioni di uomini e donne hanno intrapreso lunghi viaggi migratori, disperdendosi in ambienti remoti e spesso sconosciuti, acquisendo lavoro, riparo, terra e strutture abitative (es. in Iran tra il 1980 e il 1992 dopo la rivoluzione).