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Ad ogni modo, il “declino dell’Occidente” è tale solo se rapportato all’ascesa degli altri. I mercati emergenti degli anni ’90 sono ora potenze emergenti. Si tratta dei cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), un’etichetta che accomuna situazioni diverse: la Cina e la Russia sono seguaci del capitalismo autoritario, mentre India, Brasile e Sudafrica si considerano precursori della democrazia nei rispettivi continenti. Ma condividono tutti un ritmo di crescita economica formidabile, nonché l’opposizione al dominio occidentale nelle istituzioni internazionali come l’ONU e il FMI. Inoltre, i Brics rinnegano ogni tentativo di limitazione della sovranità degli Stati, e quindi ogni idea di “intervento umanitario”. Con lo spostamento del centro di gravità dell’economia globale dall’Atlantico al Pacifico il sistema internazionale è passato da un momento unipolare negli anni ’90 a un sistema multipolare nel nuovo millennio. Una particolarità è la fluidità e l’ambiguità dei rapporti tra ordine interno e ordine internazionale: la separazione tra affari interni ed esteri, tra sfera nazionale e internazionale è infatti attenuata e relativizzata da una serie di fattori (rivoluzione delle comunicazioni, democratizzazione della violenza, terrorismo globale, guerre civili, interdipendenza economica, giustizia penale internazionale, aumento delle aree fuori dal controllo della legge, crolli di entità statali ecc.). 4. DALLE RIVOLUZIONI DEL 1989 ALLA STANCHEZZA DELLA DEMOCRAZIA IN EUROPA ORIENTALE Le rivoluzioni democratiche dell’Europa centro-orientale furono percepite all’epoca come un evento che ebbe il suo punto di svolta nella caduta del Muro e la sua conclusione nella dissoluzione dell’URSS. In realtà non si trattò di un evento, ma di un processo i cui antecedenti risalivano alla rivoluzione ungherese del 1956 e che non si concluse affatto con il crollo sovietico. Esso fu reso possibile dalle pressioni congiunte delle periferie dell’Est europeo e dalla ritirata del centro dell’impero (il cambiamento non violento divenne possibile perché la vittima era consenziente). Il 1989 dimostrò che si poteva uscire pacificamente da una dittatura, ma la repressione in piazza Tienanmen nello stesso periodo ricordò a tutti che non si trattava dell’unica opzione possibile. Il fatto che il cambiamento sia stato negoziato, come già detto, ha indotto molti a rifugiare dal termine “rivoluzione” e a preferire un semplice “cambiamento di regime”. L’etichetta della rivoluzione proveniva soprattutto dall’Occidente. A Praga l’espressione “rivoluzione di velluto” non era così diffusa, anzi: si preferiva parlare di “abolizione della servitù” o di “eventi del novembre 1989”. In Polonia e in Ungheria l’imbarazzo che il termine “rivoluzione” suscita può essere attribuito al fatto che più che alla Rivoluzione Francese, fu il “modello spagnolo” degli anni ’70 a costituire il punto di riferimento dei protagonisti delle tavole rotonde. Ma quale che sia il termine più adeguato, oggi resta aperta la discussione sulla “rivoluzione tradita” e sul disincanto nei confronti della democrazia. Secondo Rupnik il 1989 fu a tutti gli effetti una rivoluzione, se per rivoluzione si intende lo smantellamento del vecchio sistema di potere, e non la proposta di un sistema nuovo. Alcuni avevano esagerate aspettative: pensavano che l’avvento della democrazia in Europa orientale avesse delegittimato tutti i sistemi autoritari e che la democrazia liberale non avesse più alcun rivale. Altri, invece, erano troppo pessimisti. Pensavano che i Paesi fuoriusciti dal comunismo non sarebbero stati in grado di sostenere i costi sociali dell’introduzione di un’economia di mercato e che avrebbero potuto presentarsi scenari tipici dell’America Latina, con turbolenze economiche e battute d’arresto autoritarie. Ad ogni modo, la grande trasformazione rivela una nuova geografia politica dell’Europa, definita da 3 diverse traiettorie di cambiamento post-comunista, implicanti diversi tipi di rapporti con l’UE.