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1. Libertà religiosa e obiezione di coscienza In linea di massima, l’obiezione di coscienza è definita come il rifiuto di obbedire ad una specifica prescrizione dell’ordinamento giuridico, e ciò sulla base di una confliggente norma di un altro ordinamento concorrente. Si evidenziano quindi gli elementi della disobbedienza (1), della specificità di questa (2) e della presenza di una norma confliggente (3) sulla base della quale si rifiuta di mantenere il comportamento prescritto. La norma confliggente deve quindi appartenere ad un altro ordinamento giuridico, diverso da quello istituzionale/statale, trattandosi quindi di un ordinamento morale, etico, filosofico etc. Storicamente, tale ordinamento confliggente pone le sue radici in un precetto prettamente religioso: solo in tempi recentissimi è stato possibile identificare casi di obiezione di coscienza staccati dal fenomeno religioso. Quando si tratta di obiezione di coscienza, è quindi inevitabile affrontare il tema passando per quello della libertà religiosa. La libertà religiosa, anzitutto, va intesa come la possibilità per il singolo individuo di professare una fede diversa da quella ufficiale o, comunque, più diffusamente accettata. IN questo senso, è possibile identificare numerosi schemi organizzativi con cui i rapporti tra stato e religione sono stati in passato organizzati. IN primo luogo, si può identificare il modello confessionista o teocratico, in cui la confessione religiosa è imposta violentemente e costituisce una parte fondamentale della vita pubblica e civile. All’opposto, troviamo il cesaropapismo, caratterizzato da uan completa sottomissione della vita religiosa al potere dello stato. Variazione di tale modello è il regalismo, in cui la chiesa e la religione vengono integrate nelle strutture statali, formandone parte sostanziale. Tali possibili sistemi si possono graduare e connotare in un’infinità di diverse sfumature, è quindi sufficiente osservare come attualmente, nelle democrazie pluraliste, il modello preferito è quello pattizio-concordatario. Conoscendo, grossolanamente, il fenomeno dell’obiezione di coscienza come contra legem e secundum legem, risulta facile notare come il primo caso abbia permeato tutto quel periodo dell’umanità in cui era possibile osservare un fenomeno obiettorio, ma non quello di libertà religiosa. Nell’antichità, sebbene non fosse tendenzialmente criminalizzata la fede religiosa “diversa”, e nemmeno l’ateismo, il chiamarsi fuori dalla religione significava chiamarsi fuori dalla società, che poneva le sue radici istituzionali e giuridiche su concetti e cerimonie tipicamente religiosi. Un primo esempio di obiezione, e cioè quella al servizio militare, si osserva nel periodo antico con la nascita del cristianesimo, che mal conciliava l’idea del servizio militare con il divieto della violenza. Tale obiezione era prettamente contra legem, e si caratterizzò quasi sempre per le punizioni a danno dell’obiettore, che potevano facilmente giungere sino alla condanna a morte. Nel medioevo, più semplicemente, si osserva una repressione di qualunque fenomeno risultasse discostarsi dalla religione cristiana. In tale contesto, viene sostanzialmente meno anche la contraddizione tra fede cristiana e uso delle armi, sviluppandosi invece concetti quali la guerra santa e la difesa armata della fede. Vengono quindi a mancare sostanziali e significativi esempi di obiezione di coscienza: i casi di disobbedienza sono per lo più ascrivibili a casi di rifiuto integrale dell’ordinamento statale/religioso. Nell’età moderna, i casi di obiezione di coscienza sono tipicamente per motivi religiosi, e la norma disobbedita è sempre il servizio militare. Si osservano casi durante la prima guerra mondiale, solitamente duramente repressi, che tuttavia raggiungono un numero tale da rendere necessaria una sostanziale amnistia, che si può vedere come primo embrionale esempio di legislazione che porterà al riconoscimento dell’obiezione. Durante il periodo fascista e la seconda guerra mondiale, invece, qualsiasi episodio obiettorio fu represso violentemente. Caso piuttosto celebre fu quello di Luigi Luè, che addusse “l’obbedienza alla legge di dio” quale motivazione al proprio rifiuto di prendere le armi. 2. Obiezione al servizio militare e casi storici L’obiezione al servizio militare costituisce certamente il primo caso osservabile di obiezione di coscienza. Uno dei primissimi esempi fu quello rappresentato dai cristiani durante l’impero romano: la religione cattolica, infatti, poneva quale principio inviolabile la non violenza. L’uso delle armi era quindi aborrito, tanto più per servire un regime che perseguitava i cristiani. Il problema si presentò come tale, tuttavia, solo nel momento in cui il cristianesimo raggiunse una diffusione tale da infastidire l’organizzazione militare romana, che iniziava a trovare alcune difficoltà nel reperire coscritti. Con Costantino, e quindi con l’avvicinamento tra potere spirituale e potere temporale, il fenomeno obiettorio andò quindi ad affievolirsi, a testimonianza del significato politico/collettivo delle scelte obiettorie. Con l’imporsi del cristianesimo durante il medioevo, l’obiezione al servizio militare andò sostanzialmente a scomparire: la contraddizione tra il messaggio cristiano della nonviolenza e il servizio allo stato (teocratico) scomparve totalmente, a favore di concetti che davano ampio spazio alla violenza all’interno della sfera religiosa. Come già detto, la situazione non cambiò sensibilmente sino alla prima guerra mondiale, in cui la brutalità e la tecnologia del conflitto portarono molti, chi per opportunità e chi per profondo convincimento morale, al rifiuto di prestare il servizio militare. All’inizio, tale comportamento si configurava prettamente come renitenza o diserzione, con le conseguenti gravi sanzioni. Il fenomeno raggiunse dimensioni tali da portare, nel 1919, ad un’amnistia da parte del governo Nitti. Prima di tale provvedimento, tuttavia, era possibile identificare fneomeni obiettori come contra legem, e quindi come obiezioni di coscienza in senso stretto. Durante la seconda guerra mondiale, al contrario, non vi fu alcun tipo di apertura all’obiezione, pur non mancando numerosi ed emblematici casi, anche in paesi come Italia e Germania, in cui le sanzioni per i renitenti erano particolarmente dure. Anche negli anni 50 e 60, in Italia, vi furono numerose condanne per gli obiettori, che erano visti dall’ordinamento e dalla società come “strani” e “originali”, ignorando totalmente la componente etica del fenomeno. Fu con la legge 772 del 1972 che si arrivò ad un primo riconoscimento legislativo del fenomeno, con alcuni limiti. Anzitutto, l’obiettore si trovava nella possibilità di optare per un servizio sostitutivo non armato, che tuttavia aveva lo svantaggio di una durata maggiore. Per essere ammessi a tale servizio, inoltre, occorreva addurre motivazioni di carattere etico/morale/filosofico/religioso, motivazioni la cui serietà sarebbe stata valutata da una commissione che avrebbe quindi approvato o meno l’opzione del servizio sostitutivo. Inoltre, l’obiezione doveva essere strettamente legata alla contrarietà “in ogni circostanza” all’uso delle armi, per qualunque ragione. Apparentemente dotata di ampi poteri discrezionali, essendo la norma formulata in temini generali per cui i motivi sottostanti alla scelta obiettoria dovessero essere “profondi convincimenti attinenti a una concezione generale della vita”, la giurisprudenza intervenne limitando fortemente tale discrezionalità, sostenendo che la commissione deputata al vaglio delle istanze obiettorie dovesse limitarsi a operare una verifica di non manifesta infondatezza delle stesse. Sarebbe quindi stato onere dell’autorità quello di dimostrare l’insussistenza dei motivi proposti dall’interessato, che non aveva quindi obblighi di motivazione della propria istanza. Con la legge 230 del 1998, la materia fu riformata dal punto di vista organizzativo, allo scopo di risolvere il problema causato dall’enorme aumento numerico del fenomeno obiettorio. Dal 2000 in poi, con una serie di interventi legislativi, si arrivò nel 2005 alla cessazione della chiamata al servizio di leva. 3. Conclusione la Sentenza Cassazione, Sezione I Penale, 26 novembre 2015, n. 517 (depositata in cancelleria l’8 gennaio 2016). Nel caso suddetto, alla Suprema Corte veniva chiesto di pronunciarsi in ordine alla richiesta di revoca di una sentenza di condanna per il reato di renitenza alla leva militare obbligatoria, emessa nel 2003. Alla luce della legge 14 novembre 2000 n. 331 (erroneamente indicata con il numero 231 nella sentenza in oggetto), secondo il condannato, il servizio di leva obbligatorio sarebbe stato abolito, unitamente quindi al reato contestato al ricorrente, che pertanto chiedeva di applicare la legge più favorevole al reo ai sensi dell’art. 2 comma 4 c.p. Ebbene, al netto dell’ovvia considerazione che, nel caso di specie, la condanna era già divenuta da tempo irrevocabile, con conseguente inapplicabilità della normativa più favorevole al reo, risulta di interesse il principio di diritto enunciato dalla Corte nel motivare la sentenza. la Cassazione ammette in generale la potenziale applicabilità dell’art. 2 comma 4 c.p. nel caso di condanna per renitenza alla leva obbligatoria, a seguito dell’entrata in vigore della suddetta legge 331/2000. Soprattutto, però, la Suprema Corte ha confermato il principio secondo cui il servizio militare di leva obbligatoria non è stato affatto abolito con la legge 14 novembre 2000 n. 331, che ne ha piuttosto “limitato l'operatività a specifiche situazioni e a casi eccezionali riferiti anche al tempo di pace”. La Corte osserva, altresì che, come più volte evidenziato anche nel presente elaborato, ipotizzare una totale abolizione della leva obbligatoria da parte di una legge ordinaria andrebbe in netto ed evidente contrato con l’art. 52 comma 2 Cost.