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COLPO GROSSO. «Non ci crederete mica, spero...?» chiese Riccio, quando trovarono la scritta scarabocchiata sul muro e la toilette vuota. «Dobbiamo riacchiapparlo subito.» «Ah, si? E come?» domandò Mosca, sbirciando attraverso la porta scardinata. Sulla coperta c'era la radio. Perfettamente rimontata. Per terra non c'era nemmeno una vite. Si avvicinò e girò le manopole, mentre gli altri stavano ancora con il naso incollato alla parete. «Non ci rimane altra scelta che crederci» affermò Vespa. «O vuoi subito andare a cercare un altro nascondiglio, Riccio?» «E il lavoretto, il patto con il Conte, vuoi lasciar perdere solo perché te l'ha detto il ficcanaso?» ribatté Riccio. «No che non voglio. E poi lo verrà a sapere solo se la cosa va a buon fine e, a quel punto, saremo già spariti con la grana. Chissà dove.» «Chissà dove» ripeté Riccio fissando le parole di Victor. Poi si voltò di scatto e spari nella sala. Vespa fece per andargli dietro, ma Prosper la trattenne. «Aspetta un attimo» disse. «Non avrete per caso ancora intenzione di rubare quell'ala di legno? Ma allora non avete capito niente! Scipio non è mai entrato di nascosto in casa di qualcuno in vita sua!» «E chi parla di Scipio?» lo rimbeccò Vespa incrociando le braccia sul petto. «Facciamo da soli, senza di lui. A maggior ragione adesso, dopo ciò che abbiamo scoperto. Di cosa dobbiamo vivere ora che il Re dei Ladri non ci porterà più un fico secco? Visto come stanno le cose, è chiaro che la festa è finita. Del resto che cosa vuoi che interessi al Conte se l'ala gliela porta qualcun altro? E se noi ci accaparriamo i tremila euro, non abbiamo più bisogno di nessuno: né degli adulti né tanto meno del Re dei Ladri. Forse...» Vespa scrutò pensosa la scritta sulla parete. «Forse sarebbe addirittura meglio se sbrigassimo la faccenda subito, domani notte. Prima è, meglio è. Che cosa ne dici? Davvero non vuoi partecipare?» «E Bo, che cosa ne sarà di lui?» Prosper scosse la testa. «No. Se volete rischiare la testa, fate pure. Vi auguro buona fortuna. Ma io voglio restarne fuori. Mia zia torna a Venezia tra due giorni. Questo ci lascia un po' di margine per filarcela. Tenteremo di salire come clandestini su una nave. O su un aereo. Un mezzo qualunque che ci porti lontano. Altri ce l'hanno fatta. L'hanno scritto persino sul giornale.» «Già. Te l'ho letto io a voce alta. Non l'avessi mai fatto! Ma non capisci?» La voce di Vespa suonava adirata, ma la ragazzina era sull'orlo delle lacrime. «Separarci è una follia, peggio che entrare di nascosto in una casa di notte. Noi ci apparteniamo, tu e Bo e Riccio e Maura e Mosca... e io. Ormai siamo come una famiglia!» «Ehi, gente, venite a dare un'occhiata» li chiamò Mosca dalla toilette. Credo che il nostro amico abbia davvero riparato la radio. Funziona persino il mangiacassette. Ma Prosper e Vespa non gli fecero caso. «Riflettici ancora!» lo scongiurò Vespa in un tono così implorante che Prosper senti una fitta al cuore. «Ti prego.» Poi si girò e corse da Riccio. La cena saltò. Nessuno aveva fame. Solo Bo ingollò due scodelle intere di cornflakes ormai appiccicosi e mollicci, mentre i micini gli gironzolavano intorno leccando svelti le briciole. Mosca non si fece neanche vedere. Aveva preso una canna da pesca e la radio ed era andato a sedersi sul canale, vicino alla sua barca, che continuava ad avere bisogno di una bella mano di vernice. Riccio si era infilato così in fondo al sacco a pelo che non spuntavano più nemmeno i capelli. Maura si era ritirata in un angolo per fare esercizi di stretching. Prosper cercava di scacciare i brutti pensieri fregando via con uno straccio le cacche di piccione dalle poltroncine e dal pavimento. Vespa si era sdraiata a leggere uno dei gialli che aveva soffiato a Victor. Ma quando si rese conto di aver letto per tre volte di seguito la stessa pagina, chiuse il libro e andò ad aiutare Prosper. Dopo un po' Bo cominciò a sbadigliare, allora gli lesse una "storia della buonanotte" e si addormentò tenendolo stretto in braccio. Riccio russava già da un pezzo fra i suoi peluche. Quando anche Prosper s'infilò sotto le coperte, Mosca non era ancora rientrato. Per un po' rimase sveglio a riflettere su parole d'onore e bugie, su padri e zie, sull'amicizia, su una casa e una famiglia, sui passeggeri clandestini. Si girò su un fianco e prese a osservare gli altri: Vespa e Bo rannicchiati in un angolo, stretti l'uno all'altra, Maura che si rigirava e Riccio che parlava nel sonno. E si senti al sicuro nonostante tutto ciò che era successo in quella giornata tremenda. Ma quando voltò la faccia contro il muro, gli parve di essere inghiottito dalle tenebre. A un certo punto si senti così smarrito e solo che si mise un cuscino sopra la testa. Quando alla fine riuscì ad addormentarsi, sognò. Vide se stesso e suo fratello ancora sul treno diretto a Venezia. Cercavano un posto in uno scompartimento, ma ogni volta che aprivano la porta scorrevole, dietro c'era Esther. Allora presero a correre lungo il corridoio, ma quando aprivano la porta del vagone successivo, dietro c'era ancora Esther che tentava di afferrare Bo. Prosper aveva il cuore che batteva all'impazzata e sentiva il fratellino che lo chiamava, ma non riusciva a capire che cosa dicesse. La sua voce sembrava sempre più lontana, sebbene lui lo tenesse per mano. All'improvviso Victor gli sbarrò la strada ma, quando Prosper fece dietrofront e spalancò con la forza della disperazione la porta della carrozza, ad aspettarlo c'era solo il buio: un buio pesto, freddo come il ghiaccio, senza fondo, e prima che potesse indietreggiare precipitò in quell'abisso. E Bo non c'era più. Si svegliò di soprassalto sudato fradicio. Tutt'intorno era buio. Buio e freddo. Però non come nell'incubo che aveva appena avuto. Cercò a tastoni la torcia che teneva sempre vicino al guanciale e l'accese. Il materasso di Vespa era vuoto. E non c'era più nemmeno Bo. Prosper saltò in piedi allarmato e rivoltò il sacco a pelo di Riccio. Nient'altro che animali di peluche vecchi e sporchi. E sotto la coperta di Mosca c'era solo la sua radio. Erano usciti. Tutti. E avevano preso Bo. Prosper intuì subito dove fossero. Ma, come per averne conferma, si buttò inciampando verso l'armadio dove Mosca teneva l'occorrente per il colpo: una corda, le piantine, le salsicce per i cani, il lucido da scarpe per tingersi la faccia di nero. Tutto sparito. "Ma perché hanno voluto portare a tutti i costi anche Bo?" si chiedeva sgomento. "Come ha potuto permetterlo Vespa?" Quando si precipitò fuori dal cinema, la luna brillava alta nel cielo. Per strada non c'era anima viva. Sul canale la nebbia si addensava in banchi grigiastri. Prosper si mise a correre. I suoi passi risuonavano così forte sul selciato che lui stesso trasaliva. Doveva raggiungere gli altri prima che scavalcassero il muro, prima che s'introducessero in quella casa sconosciuta. Nella sua mente turbinavano immagini terrificanti: poliziotti che trascinavano via Bo, che catturavano Mosca e Vespa, che acciuffavano Riccio e Maura per i capelli. Il Ponte dell'Accademia era umido e scivoloso e, proprio sulla sommità, Prosper cadde e si sbucciò un ginocchio. Ma si rialzò svelto e prosegui la sua corsa attraverso piazze vuote, davanti a chiese che si innalzavano nere verso il cielo. Per qualche istante ebbe la strana sensazione di essere fuori del tempo. così deserta, la città pareva antica, irreale. Quando giunse al Ponte dei Pugni, era quasi senza fiato. Sali i gradini ansimando e, una volta in cima, si appoggiò alla balaustra e guardò in basso. In ognuno degli angoli c'era l'impronta di un piede. Cosa fossero glielo aveva raccontato Riccio. In passato li si disputavano le cosiddette "Guerre dei Pugni", ed era proprio su quelle orme scavate nella pietra che si posizionavano gli sfidanti delle opposte fazioni, provenienti dai quartieri occidentali e orientali della città. Il combattimento finiva spesso in un lago di sangue e, comunque, sempre nell'acqua, perché lo scopo era di buttare nel canale l'avversario. Con il fiato grosso e le gambe che gli tremavano per lo sforzo, Prosper riprese a correre. A rotta di collo giù per l'ultima calle che lo separava da Campo Santa Margherita. Casa Spavento era a destra, quasi in fondo alla piazza. Nessuna delle finestre era illuminata. Scivolò rapido davanti alla porta e tese le orecchie. Niente. Ma certo! L'idea era quella di entrare dal retro, scavalcando il muro del giardino. Cercò di respirare più lentamente. Se solo il passaggio per imboccare il vicolo che girava intorno alla villetta non fosse stato così lugubre e sinistro! Le maschere ghignanti che ne decoravano l'arcata parevano aspettarlo al varco. E quando la luna fece capolino da dietro le nubi rischiarando anche quell'angolo tetro con i suoi pallidi raggi, gli parve che quei grugni orrendi si animassero e gli facessero le boccacce. A quel punto decise di chiudere gli occhi e di procedere a tentoni lungo la fredda parete. Un paio di metri nel buio pesto e poi di nuovo un po' di luce. Il muro grigiastro di Casa Spavento si ergeva incassato fra altre costruzioni. In cima si intravedeva una sagoma scura, accucciata. Quando la scorse, Prosper provò un misto di rabbia e sollievo. Si sentiva le ginocchia molli, il petto gli doleva per l'affanno. In quel silenzio i suoi passi rimbombavano. La figura si volse di scatto verso di lui. Era Vespa: la riconobbe subito, benché si fosse spalmata sul viso il lucido da scarpe. «Dov'è Bo?» annaspò Prosper. «Perché lo avete preso con voi? Riportatelo a casa subito!» «Calmati!» lo zittì Vespa in un soffio. «Noi gli abbiamo detto che non poteva venire, ma lui ci è venuto dietro di nascosto. E poi ha minacciato di gridare e svegliare tutto il campo se non lo aiutavamo ad arrampicarsi. Che cosa avremmo dovuto fare? Lo sai che razza di testone è!» «È già dentro?» chiese Prosper, sentendosi soffocare dall'ansia. «Tieni!» disse Vespa lanciandogli la corda che aveva dietro.