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Il castello di Amantea (già Regio castello di Amantea) è situato nell'omonima città, in provincia di Cosenza, nel basso Tirreno cosentino. A dominio della strada costiera e della via per Cosenza che corre lungo la valle del fiume Catocastro, fu in passato un'importante piazzaforte sotto i bizantini, gli arabi, i normanni, gli svevi, gli angioini e gli aragonesi. Fu risistemato nel periodo viceregnale e sotto i Borbone, ma subì gravi danni durante i terremoti del 1638 e del 1783; fu lasciato in stato abbandono dopo il disastroso assedio del 1806-1807 subito da parte delle truppe napoleoniche. Attualmente il castello è in rovina, e l'accesso ai resti sul colle che domina la città risulta faticoso e pericoloso . Nel 2008, la proprietà dell'area circostante è stata acquistata dal Comune di Amantea. In età antica in territorio amanteota sorgeva la città di Lampeteia o Clampetia, probabile colonia crotoniate abitata anche da elementi indigeni bruzi. Questa città, già decadente in età imperiale, fu spazzata via dal terremoto e maremoto del 365: nelle sue vicinanze sorse una nuova città, Nepetia ("nuova città" o "nuovo accampamento" in greco). Nepetia fu occupata dai bizantini e dopo il 553 fu sede di un governatorato militare e di una piazzaforte sui confini settentrionali del thema di Calabria. Furono dunque i bizantini i primi a fortificare il sito dell'attuale Amantea: tuttavia, il nome attuale venne alla città dalla dominazione araba. Nell'846 infatti Nepetia venne conquistata dagli arabi di Sicilia e ribattezzata "Al-Mantiah", "la rocca". Amantea rimase araba per quarant'anni, e fu sede di un emirato: conosciamo il nome di un solo emiro, As-Sinsim latinizzato in Cincimo, che nell'868 si spinse fino a tentare la conquista di Cosenza. I bizantini riconquistarono la città nell'anno 272 dell'Egira, ossia l'885-886. Amantea divenne sede vescovile, e nel X secolo inglobò nella sua diocesi il territorio della sede vescovile dell'ormai decaduta città di Temesa. L'emiro di Sicilia Abu l-Qasim Ali riconquistò Amantea nel 976, e fu di nuovo sotto la dominazione araba fino al 1031-1032, quando fu di nuovo occupata dai bizantini. I Normanni conquistarono Amantea nel 1060-1061, scacciandone una volta per tutte i bizantini. Nel 1094 la diocesi di Amantea venne aggregata a quella di Tropea, nel quadro della latinizzazione dei culti nell'Italia meridionale voluta dal papato e dai sovrani normanni. Durante la dominazione normanna Amantea decadde, rimpiazzata come importante centro di controllo del territorio dalla vicina Aiello Calabro. Sotto la dominazione sveva il castello venne rafforzato, nell'ambito del piano del ripopolamento delle zone costiere voluto da Federico II. In virtù del buon governo svevo, Amantea ed altri castelli della zona (Aiello, Cleto) resistettero tenacemente al nuovo sovrano di origine francese Carlo I d'Angiò: questi inviò il conte di Catanzaro Pietro Ruffo a riconquistare la città, che resistette alle preponderanti forze angioine per tutto il mese di maggio del 1269, prima di capitolare alla metà di giugno di quello stesso anno. I ribelli furono quasi tutti puniti atrocemente. Per tenere a bada eventuali future rivolte, gli angioini edificarono in territorio amanteota il castello di Belmonte Calabro, nucleo attorno a cui si sarebbe sviluppato l'omonimo paese. Amantea fu al centro delle vicende della cosiddetta "guerra dei novant'anni" tra Angiò ed Aragona per il possesso del Regno di Napoli e Sicilia, seguita al casus belli dei Vespri siciliani. La popolazione amanteota era di tendenza aragonese; il castello, difeso da duecento uomini e ben provvisto di viveri dai castellani di fede angioina, fu assediato dalla flotta e dall'esercito aragonese nel 1288, e capitolò a patti onorevoli. Il castello tornò agli Angiò in forza della pace di Caltabellotta del 1302: dopo un periodo di ritorsioni contro gli amanteoti per la loro fede aragonese, la città ottenne dagli ultimi sovrani angioini-durazzeschi importanti esenzioni e privilegi che portarono un aumento di popolazione. Nel 1391 Ladislao I di Napoli infeudò Amantea al doge di Genova Antoniotto Adorno, a titolo di restituzione dei prestiti concessogli da questi. Ad ogni modo, nel 1425 Luigi III d'Angiò decretò Amantea ed il suo castello possessi inalienabili del regio demanio. Renato d'Angiò ciò nonostante concesse nuovamente il feudo a Margherita di Poitiers, seconda moglie del marchese di Catanzaro Niccolò Ruffo, e nel 1458, alla morte di Alfonso I d'Aragona, primo sovrano aragonese di Napoli e Sicilia, gli amanteoti insorsero contro l'infeudamento, schierandosi con il pretendente angioino al trono napoletano, Giovanni d'Angiò. Alla fine il re Ferrante d'Aragona spostò la feudataria Margherita di Poitiers da Amantea a Rende, e la rivolta rientrò, ma Amantea fu l'ultimo dei castelli calabresi a tornare sotto il controllo aragonese. Amantea rischiò di essere infeudata anche nel Seicento, in due occasioni, a causa della costante miseria delle casse viceregnali: la prima con il principe della vicina Belmonte Giovanni Battista Ravaschieri nel 1630-1633, la seconda con il granduca di Toscana Ferdinando II de' Medici nel 1647. In entrambe le occasioni la popolazione difese con orgoglio il proprio stato di città demaniale, muovendosi persino presso la corte di Madrid. Sotto gli aragonesi, la castellania venne affidata alla famiglia Carafa, duchi di Maddaloni. Nel 1489 il castello fu visitato da Alfonso II di Napoli, in viaggio di ispezione per i castelli del suo regno: il sovrano fu accolto dal castellano Giovanni Tommaso Carafa, e visitò la chiesa ed il convento di San Bernardino da Siena. Durante la breve parentesi dell'occupazione di Carlo VIII di Francia (1496-1498), il castellano Giovanni Tommaso Carafa dovette schierarsi con i francesi, ma la popolazione inviò una delegazione ad omaggiare il sovrano aragonese spodestato Ferrante d'Aragona rifugiatosi ad Ischia. Alla fine della dinastia aragonese, scoppiò una guerra tra Francia e Spagna per il possesso dei territori dell'Italia meridionale; Amantea parteggiò per gli spagnoli: nel 1504 durante la guerra 85 spagnoli capitanati da Gomez de Solis sbarcarono sulle spiagge amanteote, spingendosi nell'entroterra per dare aiuto alla guarnigione spagnola di Cosenza assediata dai francesi. Alla fine la guerra fu vinta dal "re cattolico" Ferdinando II d'Aragona, e Napoli diventò un vicereame spagnolo. Nel 1536 Juan Sarmiento, inviato da Carlo V d'Asburgo a controllare lo stato delle fortificazioni del Viceregno, riportava che il castello, secondo le parole dello storico locale Gabriele Turchi, era "inidoneo anche come ricovero di ladroni". Perciò tra il 1538 ed il 1544 al castello lavorarono gli architetti Giovanni Maria Buzzacarino (attivo anche al castello di Crotone) e Gian Giacomo dell'Acaya (progettista del borgo fortificato di Acaya in Puglia). Fu realizzato in questa fase il grande baluardo meridionale a scarpa. Il terremoto del 1638 arrecherà gravi danni alle strutture del castello. Nuovi restauri saranno svolti nel 1694, per la spesa di 365 ducati; nel 1757 (già in epoca borbonica, su ordine di Carlo III di Borbone), per la spesa di 136 ducati; nel 1766, sotto la direzione dell'ingegnere militare Giovanni Galenza: questi ultimi lavori furono vanificati da un terremoto nel 1767. Ulteriori danni, e maggiori, furono quelli provocati dal devastante terremoto del 1783. Per riparare questi ultimi gravi danni, nel 1786 arrivò da Napoli l'ingegnere militare Andrea Depuis, che diresse i lavori per l'importo di 390 ducati. Durante i fatti della Repubblica Napoletana (1799), Amantea si consegnò spontaneamente ai giacobini: la popolazione di fatto disarmò la guarnigione del castello, e piantò l'albero della libertà, guidata da Ridolfo Mirabelli, capo della piazza nel breve periodo rivoluzionario. Infatti dopo neppure un mese sopraggiunsero i sanfedisti guidati dal cardinale Fabrizio Ruffo, che vennero rapidamente a capo del tentativo di resistenza giacobino.