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1 Il prescelto Mio cugino Angelo mima gesti impazienti. «Vai! Vai!» sussurra, ma con la faccia di uno che sta urlando. Io sono totalmente paralizzato, pelle d’oca alta così, mi vorrei sotterrare per la vergogna. L’altoparlante ha appena chiamato il mio nome per il premio di capocannoniere del torneo, è una bella sera d’estate e l’intera tribuna del campo della Fortitudo si è messa ad applaudire, saranno duemila persone. E io ho appena sei anni. «Totti. Francesco.» Breve pausa del dirigente. «Ma dov’è andato? Francesco?» Angelo mi batte le mani davanti al viso, come a dire ehi, svegliati, tocca a te. Gli rispondo con l’espressione brutta, quella che fa venire le rughe sulla fronte. Facile per lui, il mio amico d’infanzia più caro, figlio del fratello di mamma: ha sempre avuto la faccia tosta, soprattutto con gli adulti, e non soltanto perché è di dieci mesi più grande. «Francesco!» Alla fine il dirigente mi ha visto, e mi chiama a voce alta, attirandomi con la sua manona, «Vieni, vieni», sembra che tutti ripetano due volte ogni parola, come se fossi tardo di comprendonio, e invece sono soltanto timido. Molto timido. Mi faccio forza, un bel respiro e salgo le scalette per arrivare in cima alla tribuna, lì dove i premi vengono consegnati. Gioco nella Fortitudo da un annetto, è il campo sotto casa, nel cuore del quartiere. Tutti i bambini di Porta Metronia sono iscritti, così ogni estate viene organizzato un torneo, dodici squadre da otto giocatori, noi siamo il Botafogo e abbiamo vinto in finale sul Flamengo: il capitano è un altro, e quindi stasera sono venuto qui tranquillo, tanto sarebbe toccato a lui ritirare la coppa. Non sapevo che ci fossero pure i trofei individuali. Il dirigente mi consegna la targa, da qualche parte ci sono anche mamma e papà ma non li vedo, mentre Angelo – che ovviamente è in squadra con me – sorride soddisfatto perché pensa che io abbia vinto la timidezza. Macché. Vorrei ancora sprofondare, ma una volta che duemila paia d’occhi ti hanno individuato non puoi più fare finta di niente. Penso confusamente che sarebbe educato ringraziare, ma l’idea di parlare al microfono non è neanche considerabile. Tengo lo sguardo fisso a terra e appena avverto che la stretta di mano del dirigente si è un po’ allentata me la svigno, sperando che la gente sia già concentrata sulla premiazione successiva. Scendo veloce i gradini, riguadagno il campo e l’abbraccio protettivo dei miei compagni di squadra, qualcuno vuole guardare la targa, io mi piazzo proprio al centro del gruppetto, perfettamente nascosto. Un fischio segnala che l’altoparlante è di nuovo in funzione. La voce del dirigente è monocorde, non sembra cogliere la notizia: «Miglior giocatore del torneo: Totti Francesco». Oh, no. Timido, certo. Silenzioso, soprattutto. Ci metto parecchio a parlare correttamente, quasi cinque anni: fatico a mettere assieme le sillabe, tanto che mamma mi porta regolarmente dal logopedista per capire se esiste qualche problema serio alla laringe. «Non si preoccupi» la rassicura lui dopo aver eseguito i vari test. «Francesco deve soltanto “partire”. Faccia conto una macchina col freno a mano tirato. Ecco, deve rilasciarlo.» Ha ragione. Come succede a tutti i bambini, una volta iniziato non ci penso più. Ragionando a posteriori su quella ritrosia a esprimermi, è probabile che incidesse anche la tristezza per nonno Costante, il padre di mia mamma, che dopo l’amputazione di una gamba era venuto ad abitare con noi, e non stava bene. Aveva lavorato per tutta la vita alla manutenzione delle celle frigorifere, ed evidentemente gli sbalzi continui tra caldo e freddo gli avevano portato la cancrena. Dormivamo nella stessa camera e ogni sera, fingendo di essere già nel sonno, seguivo con crescente impressione gli sforzi di mia madre per sfilargli la protesi e posarla accanto al termosifone. Ai miei occhi lei gli tirava via la gamba, e la cosa mi spaventava moltissimo. Una notte, dopo aver atteso che nonno russasse, mi alzai e quatto quatto andai a toccare la protesi, scoprendo che era di legno. Tornai di corsa a letto, rischiando di svegliarlo, e nascosi la testa sotto il cuscino. Più avanti, quando già andavo a scuola, le sue condizioni si aggravarono e mamma chiese a una vicina, la signora Schibba, se poteva ospitarmi per qualche tempo: papà prese una poltrona-letto e la sistemò a casa sua, io andavo a scuola con Flavia e Roberta, le figlie della signora, e quindi mi trovai bene. Quando nonno Costante mancò, mamma, mettendo a posto le sue cose, mi fece vedere la tessera di socio vitalizio della Roma. Ne andava molto orgoglioso. Mi capita spesso di rimanere a casa da solo. E sono un po’ fifone. Succede al mattino, perché papà va in banca a lavorare, mio fratello Riccardo è a scuola – ha sei anni di più – e mamma deve pur andare a fare la spesa. Si raccomanda di tutto e poi esce, io sono ancora a letto, e due minuti dopo aver sentito la chiusura della porta e i suoi passi sulle scale, cominciano le paure. Avverto una presenza nelle altre stanze, rumori strani, scricchiolii, qualcosa che struscia a terra, un suono attutito, forse metallico. Allora mi rannicchio sotto le coperte fingendomi morto, e penso che quando il ladro – perché certamente di là c’è un ladro – verrà a ispezionare la camera rimarrà sorpreso e intristito dalla presenza di un bambino morto, e se ne andrà. Come strategia è un po’ lugubre, ma funziona perché nessuno è mai entrato per controllare, o almeno nessuno ha mai alzato le coperte. Di più: quando mi convinco di averla scampata un’altra volta accendo il televisore – papà ne ha comprato un secondo, più piccolo rispetto a quello che abbiamo in salotto, e me l’ha piazzato in camera: regalone – cerco CHiPs, che è il mio telefilm preferito, e alzo il volume al massimo per non sentire più rumori inquietanti. Dopo qualche minuto mamma fa irruzione nella stanza trafelata, mica l’ho sentita rientrare, e abbassa di colpo: «Ma sei matto? Così diventi sordo!». Metto un po’ il broncio, ma in realtà sono felice di aver superato un’altra prova di solitudine, e soprattutto che lei sia tornata. (Detto fra noi, la paura non se ne è mai andata del tutto: ancora oggi, a casa, se di notte parte l’allarme io fingo di dormire e lascio che sia Ilary ad alzarsi per controllare…) CHiPs mi piaceva perché conteneva i sogni dell’epoca: due poliziotti americani di pattuglia in moto sulle autostrade della California. Cosa puoi desiderare più di una Harley-Davidson? Al pomeriggio arrivavano prima Magnum, P.I. e poi, naturalmente, Holly e Benji: non conosco giocatori della mia generazione che da bambini non si siano divorati i cartoni dei piccoli calciatori giapponesi. Però erano anni in cui la strada esercitava un richiamo fortissimo, perché nel quartiere ci si conosceva tutti e le mamme si sentivano tranquille a lasciarti uscire, tanto c’erano decine di occhi a controllarti. Quelli dei negozianti di via Vetulonia, per esempio, che se non avevano clienti non rimanevano dietro ai banconi come succede oggi, ma si piazzavano sulla porta o direttamente fuori, sul marciapiede, e lì chiacchieravano fra loro, con i passanti e pure con noi bambini. I loro figli erano tutti miei amici. C’era Antonio, detto il Morto perché era sempre pallido, c’era Bambino, c’erano i due Giancarlo, Pantano e Ciccacci, e poi Marco e Sonia, i figli del barista, oltre ovviamente al mio inseparabile cugino Angelo. Una vera combriccola, ma di bravi ragazzi: mai combinato nulla di grave. Ehm, quasi mai. Una volta, avrò avuto dodici anni, Angelo, Bambino e io scendiamo in strada senza pallone e vediamo che, all’interno del cortile della scuola, due fratelli stanno palleggiando. Non fanno parte della compagnia a pieno titolo perché si fanno vedere solo di tanto in tanto, devono avere genitori molto insistenti sullo studio. Però ci si conosce, e quindi diamo per scontato di poterci aggiungere: a quel punto ne mancherebbe soltanto uno per un bel tre contro tre. Invece quelli non ce la passano, pensa che soggetti: «Il pallone è nostro e voi non ci giocate», gnè gnè gnè, e più noi insistiamo più loro, scambiandosi sempre la palla con attenzione per tenerla fuori dalla nostra portata, si allontanano. Bambino è il più fumantino, quello che in certe situazioni prende l’iniziativa: recupera la catena con la quale lega la bicicletta al palo e comincia a passarla sulla cancellata della scuola, ottenendo un rumore sinistro. Ma i due sono proprio testardi, di mollare con le buone non ne vogliono sapere, e alla fine partono gli spintoni. Non c’è match, a quell’età conta quanto sei grosso ma anche quanto tempo hai passato in strada. I fratelli scappano lasciando il pallone lì, a nostra disposizione. Cominciamo a giocare felici di aver vinto quel braccio di ferro, e la lite è presto dimenticata. Da noi. Peccato che a fine pomeriggio, quando torniamo a casa, troviamo le mamme in attesa davanti al portone. Furibonde, mai viste così