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E poiché non esplicita le sue ragioni, mi chiedo perché abbia avuto bisogno di nominare le teorie delle pensatrici femministe nere e perché le abbia usate per metterle a confronto con il lavoro di Spillers e Carby. Carby, che scrive dal punto di vista di una persona di colore britannica di origini indiane occidentali, non è affatto la prima o l’unica pensatrice di colore, come invece Fuss suggerisce, a costringerci a “interrogare l’essenzialismo della storiografia femminista tradizionale, che presenta una nozione universalizzante ed egemonica di sorellanza globale”. Se Fuss ritiene il lavoro di Carby più convincente rispetto ad altri scritti di femministe nere che ha letto (supposto che abbia letto una vasta gamma di lavori femministi neri, dal momento che nulla – nei commenti o nella bibliografia – suggerisce che lo abbia fatto), avrebbe potuto manifestare quell’apprezzamento senza denigrare altre pensatrici femministe nere. Questo trattamento sprezzante ricorda le forme disumanizzanti che assume il tokenismo delle donne nere nelle borse di studio femministe e negli incontri professionali. Le donne nere sono trattate come se fossero una scatola di cioccolatini offerta alle singole donne bianche per il proprio piacere alimentare, in modo che queste ultime possano decidere quali pezzi sono più gustosi per sé e per le altre persone. Ironia della sorte, anche se Fuss elogia il lavoro di Carby e Spillers, non è il loro lavoro a essere presentato in questo capitolo tramite una lettura critica approfondita. In verità, la soggettività delle donne nere è trattata come un problema secondario. Una ricerca simile viene considerata valida in un contesto accademico che emargina costantemente le pensatrici nere. Resto continuamente stupita dalla totale assenza di riferimenti al lavoro delle donne nere nelle opere di critica contemporanea che affermano di affrontare in modo inclusivo questioni di genere, razza, femminismo, postcolonialismo e così via. Io e altre pensatrici nere, confrontandoci in merito a tale mancanza con alcune colleghe e colleghi, ci sentiamo spesso rispondere che semplicemente non erano a conoscenza dell’esistenza di tale materiale, poiché lavorano per lo più a partire dalla propria conoscenza delle fonti. Nel leggere Essentially Speaking, ho pensato che Diana Fuss non avesse familiarità con il crescente corpus di lavori delle pensatrici femministe nere – in particolare le critiche letterarie – o che escludesse quel lavoro perché lo considerava poco importante. Chiaramente, basava la sua valutazione sul lavoro di cui aveva conoscenza, fondando la sua analisi sull’esperienza. Nel capitolo conclusivo del libro, Fuss critica in particolare l’uso dell’esperienza in classe come base da cui partire per abbracciare verità totalizzanti. Molti dei limiti che evidenzia potrebbero facilmente essere applicati al modo in cui l’esperienza informa non solo ciò di cui scriviamo, ma anche il modo in cui scriviamo, i giudizi che formuliamo. Più di ogni altro capitolo di Essentially Speaking, questo saggio conclusivo è profondamente inquietante. Inoltre, indebolisce la precedente e illuminante riflessione dell’autrice sull’essenzialismo. Proprio perché la mia esperienza degli scritti critici di pensatrici femministe nere mi avrebbe portato a fare valutazioni diverse e sicuramente più complesse di quelle fatte da Fuss, la mia reazione al capitolo Essentialism in the Classroom è in qualche misura influenzata dalle mie diverse esperienze pedagogiche. Questo capitolo mi ha fornito un testo con il quale potermi confrontare dialetticamente; è servito da catalizzatore per chiarire i miei pensieri sull’essenzialismo in classe. Secondo Fuss, i problemi di “essenza, identità ed esperienza” esplodono in classe principalmente a causa del contributo critico dei gruppi marginalizzati. All’interno del capitolo, ogni volta che offre un esempio di individui che usano punti di vista essenzialisti per dominare la discussione e mettere a tacere gli altri invocando l’“autorità dell’esperienza”, si tratta di membri di gruppi che storicamente sono stati, e sono tuttora, oppressi e sfruttati in questa società. Fuss non affronta il modo in cui i sistemi di dominio attivi nell’accademia e in classe mettono a tacere le voci degli individui dei gruppi emarginati, e danno loro spazio solo quando ciò è necessario sulla base dell’esperienza; non sostiene che le pratiche discorsive che consentono l’affermazione dell’“autorità dell’esperienza” sono già state determinate dalla politica di razza, sesso e dominio di classe, e non suggerisce in modo tenace che siano i gruppi dominanti – uomini, bianchi, eterosessuali – a perpetuare l’essenzialismo. Secondo la sua narrazione è sempre l’“altro” marginalizzato a essere essenzialista. Eppure la politica di esclusione essenzialista come mezzo per affermare la presenza e l’identità, è una pratica culturale che non emerge solo da gruppi marginalizzati. E quando quei gruppi usano l’essenzialismo come modo per affermarsi in contesti istituzionali, spesso imitano quelle strategie utili a rinforzare le soggettività che sono parte dell’apparato di controllo nelle strutture di dominio. Di sicuro molti studenti bianchi hanno insistito sull’autorevolezza dell’esperienza nel corso delle mie lezioni, il che consente loro di credere che tutto ciò che hanno da dire valga la pena di essere ascoltato, e che in effetti le loro idee ed esperienze dovrebbero essere al centro della discussione in classe. La politica di razza e genere all’interno del patriarcato suprematista bianco concede loro questa “autorità” senza che debbano manifestarne il desiderio. Non si presentano alle lezioni affermando: “Penso di essere intellettualmente superiore ai miei compagni di classe, perché sono bianco e maschio e le mie esperienze sono molto più importanti di quelle di qualsiasi altro gruppo”. Eppure il loro comportamento spesso denuncia questo modo di pensare all’identità, all’essenza, alla soggettività. Perché il capitolo di Fuss ignora i modi sottili e palesi in cui l’essenzialismo viene espresso da una posizione di privilegio? Perché critica principalmente gli abusi dell’essenzialismo centrando la sua analisi sui gruppi marginalizzati? In questo modo li rende colpevoli di turbare l’aula, rendendola un luogo “non sicuro”. Non è questa forse la modalità convenzionale attraverso cui il colonizzatore parla di chi è colonizzato, l’oppressore di chi viene oppresso? Fuss afferma: “I problemi in classe spesso cominciano quando quelli ‘che sanno’ interagiscono solo con altri ‘che sanno’, escludendo ed emarginando quelli percepiti al di fuori del cerchio magico”. Questa osservazione, che può certamente essere applicata a qualsiasi gruppo, precede un approfondimento sul commento critico di Edward Said che rafforza la sua critica dei pericoli dell’essenzialismo, citato all’interno del testo come “autorità del Terzo mondo” locale che legittima la sua tesi. Facendo eco in modo critico a Said, Fuss commenta: “Per Said è tanto pericoloso quanto fuorviante basare la politica dell’identità su rigide teorie di esclusione, esclusione che stabilisce, ad esempio, che ‘solo le donne possono comprendere l’esperienza femminile, solo gli ebrei possono comprendere la sofferenza ebraica, solo il soggetto colonizzato può capire l’esperienza coloniale’”. Sono d’accordo con quanto afferma Said, ma ci tengo a ribadire che mentre anche io critico l’uso dell’essenzialismo e della politica dell’identità come strategia di esclusione o dominio, divento sospettosa quando le teorie definiscono questa pratica dannosa suggerendo che si tratti di una strategia impiegata solo dai gruppi marginalizzati. Il mio sospetto è radicato nella consapevolezza che una critica dell’essenzialismo che sfida esclusivamente i gruppi marginalizzati a interrogare il proprio uso della politica dell’identità, o il punto di vista essenzialista come mezzo per esercitare potere coercitivo, non interroga le pratiche critiche di altri gruppi che impiegano le stesse strategie in modi differenti, e il cui comportamento escludente viene fermamente sostenuto da strutture di dominio istituzionalizzate che non lo criticano o controllano. Allo stesso tempo, sono preoccupata che le critiche alla politica dell’identità non diventino la nuova modalità elegante di mettere a tacere gli studenti appartenenti a gruppi marginalizzati. Fuss sottolinea che “il confine artificiale tra chi fa parte di un gruppo e chi no, spesso imbriglia la conoscenza, impedendone la disseminazione”. Anche se condivido questa percezione, mi turba il mancato riconoscimento del fatto che razzismo, sessismo ed elitismo modellino la struttura delle classi, creando un contesto realmente predeterminato che separa chi è esperto da chi non lo è, spesso già attivo ancor prima dell’inizio di qualsiasi riflessione in classe. Non c’è alcun bisogno che i gruppi marginalizzati portino questa opposizione binaria in classe, perché di solito è già operativa: possono semplicemente utilizzarla al servizio delle loro preoccupazioni. Da un punto di vista empatico, l’affermazione di un essenzialismo escludente da parte degli studenti dei gruppi marginalizzati può essere la risposta strategica al dominio e alla colonizzazione, una strategia di sopravvivenza che può effettivamente inibire la discussione, anche se salva quegli studenti dall’inesistenza. Fuss sostiene che “la legge non scritta della classe è quella di non fidarsi di coloro che non possono portare l’esperienza come fondamento indiscutibile della loro conoscenza. Tali leggi non scritte rappresentano forse la minaccia più grave per le dinamiche di classe, in quanto suscitano sospetto in coloro che ne sono inclusi e senso di colpa (a volte rabbia) tra chi non lo è”.