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Una delle femministe nere presenti, direttrice di una clinica per donne, sostenne in modo convincente il diritto di scelta della donna. Nel corso di questa accesa discussione, una delle donne nere presenti, che era rimasta a lungo in silenzio e che aveva esitato prima di partecipare alla conversazione perché non era sicura di poter trasmettere la complessità del suo pensiero utilizzando il vernacolo nero (in modo che noi, gli ascoltatori, comprendessimo le sue parole senza prenderla in giro), prese la parola. Mentre me ne andavo, questa sorella mi venne incontro e mi afferrò entrambe le mani, con forza, ringraziandomi della discussione. Prima di rivolgermi le sue parole di gratitudine, condivise con me la consapevolezza che tale conversazione non solo le aveva dato modo di dare voce a sentimenti e idee che aveva sempre “tenuto per sé”, ma che parlarne aveva creato la possibilità, per lei e per il suo partner, di cambiare il proprio modo di pensare e agire. Mi disse questo in modo diretto e intenso, mentre eravamo in piedi una di fronte all’altra, tenendomi per mano e ripetendo svariate volte, “ho sofferto così tanto”. Ringraziò il fatto che il nostro incontro, e la teoria incentrata sulla razza, sul genere e sulla sessualità avevano alleviato il suo dolore, che aveva percepito dissolversi dentro di sé quel pomeriggio, per lasciare spazio alla guarigione. Stare una di fronte all’altra, mani nelle mani e occhi negli occhi, mi ha permesso di condividere empaticamente il calore di quella guarigione. Voleva che rendessi testimonianza, voleva vedere nuovamente riconosciuto sia il suo dolore sia il potere che scaturiva dalla scomparsa di quella ferita. Non è facile nominare il nostro dolore, renderlo il punto di partenza della teoria. Patricia Williams, nel suo saggio On Being the Object of Property, scrive che anche chi di noi è “consapevole” percepisce il dolore generato dalle svariate forme di dominio (omofobia, sfruttamento di classe, razzismo, sessismo, imperialismo). Ci sono momenti nella vita, in cui mi sento come se mancasse una parte di me. Ci sono giorni in cui mi sento così invisibile da non riuscire a ricordare che giorno della settimana è, in cui mi sento così condizionata da non ricordare il mio nome, in cui mi sento così persa e arrabbiata che non riesco a dire una parola civile alle persone che più mi amano. Sono i momenti in cui vedo il mio riflesso nelle vetrine dei negozi e mi sorprendo di vedere una persona integra restituirmi lo sguardo… In quei momenti, devo chiudere gli occhi e ricordarmi di me stessa, disegnare uno schema interiore liscio e intatto. Non è facile nominare il nostro dolore, fare teoria a partire da quel luogo. Sono grata alle molte donne e uomini che hanno il coraggio di teorizzare a partire da un luogo di dolore e di lotta, che espongono coraggiosamente le proprie ferite affinché la loro esperienza ci sia di insegnamento e ci guidi, e sia il mezzo utile a tracciare nuovi percorsi teorici. Il loro è un impegno liberatorio. Non solo ci consente di ricordare e recuperare noi stessi, ma ci dà la carica e ci sfida a rinnovare il nostro impegno per una lotta femminista attiva e inclusiva. Dobbiamo ancora realizzare collettivamente la rivoluzione femminista. Sono grata del fatto che, in quanto pensatrici e teoriche femministe, stiamo cercando insieme i modi per realizzare questo movimento. La nostra ricerca ci riporta dove tutto ha avuto inizio, a quel momento in cui una singola donna o bambina, che pensava di essere tutta sola, ha iniziato la rivolta femminista, ha iniziato a nominare la sua pratica: anzi, ha iniziato a formulare la sua teoria a partire dall’esperienza vissuta. Immaginiamo che questa donna o bambina soffrisse il dolore del sessismo e dell’oppressione sessista, che volesse far sparire quel dolore. Sono grata di poter essere una testimone, a dimostrazione del fatto che possiamo creare una teoria femminista, una pratica femminista, un movimento femminista rivoluzionario che può parlare direttamente al dolore che sentono le persone e offrire loro parole di guarigione, strategie di guarigione, teorie di guarigione. Non c’è nessuna tra noi che non abbia vissuto il dolore dell’oppressione sessista, l’angoscia che il dominio maschile può creare nella vita quotidiana, la sofferenza profonda e inesorabile. Mari Matsuda ha detto che “ci viene detta la bugia che in guerra non si prova dolore” e che il patriarcato rende possibile questo dolore. Catharine MacKinnon ci ricorda che “conosciamo attraverso la nostra vita e viviamo quella conoscenza, che supera tutto ciò che qualsiasi teoria abbia mai teorizzato”. Realizzare questa teoria è la sfida che ci attende. Perché nella sua realizzazione è nascosta la speranza della nostra liberazione, nella sua realizzazione c’è la possibilità di nominare tutto il nostro dolore, di farlo sparire una volta per tutte. Se saremo in grado di creare una teoria femminista e dei movimenti femministi capaci di affrontare questo dolore, non avremo difficoltà a realizzare una lotta di resistenza femminista di massa. Non esisterà alcun divario tra la teoria e la pratica femminista. 5. Essenzialismo ed esperienza Molte pensatrici e donne nere impegnate nel movimento femminista hanno tentato di decostruire la categoria “donna”, sostenendo che il genere non è il solo fattore determinante dell’identità di una donna. Il successo di questo sforzo si può apprezzare non solo considerando il numero di studiose femministe che hanno affrontato le questioni relative a razza e razzismo, ma anche le nuove ricerche che indagano l’intreccio fra razza e genere. Spesso ci si dimentica che l’obiettivo non era semplicemente che le studiose e le attiviste femministe si concentrassero sulla razza e sul genere, ma che lo facessero in modo tale da non riprodurre le tradizionali gerarchie oppressive. In particolare, uno degli aspetti considerati cruciali per dare vita a un movimento femminista di massa era che la teoria non fosse scritta in modo tale da cancellare ed escludere ulteriormente le donne nere e di colore, o, peggio ancora, costringerle in posizioni subordinate. Sfortunatamente, molte borse di studio femministe infrangono queste speranze, soprattutto perché chi si dedica alla teoria spesso non si preoccupa di interrogare il posizionamento dal quale parla, dando per scontato, come è ormai di moda fare, che non sia necessario chiedersi se la prospettiva da cui si scrive è informata dal pensiero razzista e sessista, e quale sia la percezione delle donne nere e di colore da parte delle femministe. Questo problema mi è balzato agli occhi in maniera prepotente nel corso della lettura di Essentially Speaking – Feminism, Nature and Difference di Diana Fuss, in occasione di una borsa di studio femminista incentrata sulla razza e sul genere. Mi sentivo intrigata e stimolata intellettualmente dalla riflessione di Fuss sugli attuali dibattiti in merito all’essenzialismo, e da come problematizzava la questione. Gran parte del libro offre un’analisi brillante, che consente a chi fa teoria di considerare gli aspetti positivi dell’essenzialismo, pur sollevando critiche pertinenti rispetto ai suoi limiti. Nei miei scritti sull’argomento (The Politics of Radical Black Subjectivity, Post-Modern Blackness in “Yearning”), pur non concentrandomi in modo specifico sull’essenzialismo come fa Fuss, focalizzo la mia attenzione sui modi in cui le critiche all’essenzialismo hanno finalmente decostruito l’idea di un’identità ed esperienza nera monolitica e omogenea. Rifletto anche sul modo in cui la critica totalizzante delle idee di “soggettività, essenza, identità” possa apparire molto minacciosa ai gruppi emarginati, per i quali nominare la propria identità è un gesto attivo di resistenza politica e parte della lotta per sfidare il dominio. Essentially Speaking mi ha fornito un quadro critico che ha potenziato la mia comprensione dell’essenzialismo, eppure a metà del libro di Fuss ho iniziato a sentirmi turbata. Lo sgomento è iniziato con la lettura di “Race” under Erasure? Poststructuralist Afro-American Literary Theory. In questo capitolo, Fuss esprime punti di vista radicali sulla critica letteraria afroamericana, senza dare alcuna indicazione rispetto al corpus di lavori a cui attinge per trarre le sue conclusioni. Le sue affermazioni in merito alle opere delle critiche femministe nere sono particolarmente inquietanti. Fuss afferma: “A eccezione del recente lavoro di Hazel Carby e Hortense Spillers, le critiche femministe nere sono state riluttanti a rinunciare a posizioni critiche essenzialiste e a pratiche letterarie umanistiche”. Curiosa di sapere quali lavori avessero stimolato questa valutazione, sono rimasta sbalordita nel vedere Fuss citare esclusivamente saggi di Barbara Christian, Joyce Joyce e Barbara Smith. Anche se queste donne hanno prodotto teorie letterarie preziose, certamente non rappresentano tutte le pensatrici femministe e nere, in particolare le critiche letterarie. Riassumendo in pochi paragrafi le sue prospettive sulla scrittura femminista nera, Fuss si concentra sui critici letterari neri Houston Baker ed Henry Louis Gates, citando un corpus significativo dei loro scritti. In questo capitolo sembra istituire una gerarchia di genere razzializzata, in cui la scrittura sulla “razza” degli uomini neri è considerata più meritevole di uno studio approfondito del lavoro delle pensatrici nere. La semplicità con cui svaluta il lavoro della maggior parte delle pensatrici femministe nere solleva questioni problematiche. Poiché Fuss non esamina in modo esauriente il lavoro delle critiche femministe nere, è difficile cogliere le ragioni intellettuali alla base della sua critica. I commenti sulle pensatrici femministe nere sembrano semplici aggiunte a una critica che non è mai cominciata, dal momento che tali lavori non sono inclusi nella sua analisi.