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Sono così tanti i luoghi in questo paese in cui la parola scritta ha soltanto un leggero significato visivo, in cui gli individui che non sanno leggere o scrivere non possono trovare nulla di utile in una teoria pubblicata, che sia chiara o oscura. Pertanto, qualsiasi teoria che non può essere condivisa in una conversazione quotidiana non può essere utilizzata per educare il pubblico. All’interno dei movimenti femministi si è verificato un enorme cambiamento, se si considera che oggi le studenti, in maggior parte donne, che frequentano le lezioni di Women’s Studies e leggono quella che viene loro spacciata per teoria femminista, sentono che ciò che stanno leggendo non ha significato, non è comprensibile, o se anche lo comprendono non si collega in alcun modo alla realtà “vissuta” al di fuori della classe. Come attiviste femministe dovremmo chiederci: a che serve una teoria femminista che assale la fragile psiche di donne che lottano per liberarsi dal giogo opprimente del patriarcato? A cosa serve una teoria femminista che le affossa letteralmente e le vede uscire incerte, con sguardi confusi, dagli ambienti scolastici – sentendosi umiliate, sentendosi come se si trovassero da qualche parte, in un salotto o in una camera da letto, nude, con chi le ha sedotte o le sedurrà, che le costringe per di più a un’interazione umiliante, che le spoglia del loro senso del valore? Chiaramente, una teoria femminista che è in grado di fare questo può andare bene per legittimare i Women’s Studies e le borse di studio femministe agli occhi del patriarcato dominante, ma mina alla base i movimenti femministi. Forse è l’esistenza di questa teoria femminista ipervisibilizzata che ci spinge a parlare del divario tra teoria e pratica. Perché lo scopo di tale teoria è proprio quello di dividere, separare, escludere, mantenere una distanza. E poiché questa teoria continua a essere utilizzata per mettere a tacere, censurare e svalutare svariate voci teoriche femministe, non possiamo semplicemente ignorarla. Tuttavia, nonostante venga utilizzata come strumento di dominio, può anche portare con sé idee, pensieri e visioni importanti che potrebbero, se usate in modo diverso, svolgere una funzione guaritrice e liberatoria. Al tempo stesso, non possiamo ignorare il pericolo che rappresenta per la lotta femminista, una lotta che deve essere radicata in una teoria che informa, modella e rende possibile la pratica femminista. All’interno degli ambiti femministi, molte donne hanno reagito rifiutando la teoria egemonica femminista che non parla chiaramente alle donne, e, di conseguenza, promuovendo ulteriormente la falsa dicotomia tra teoria e pratica. In sostanza, colludendo con quelle a cui si vorrebbero opporre. Interiorizzando il falso presupposto che la teoria non sia una pratica sociale, promuovono la creazione di una gerarchia potenzialmente oppressiva all’interno degli ambienti femministi, in cui l’azione concreta viene considerata più importante di qualsiasi teoria scritta o parlata. Di recente, sono andata a un raduno di donne prevalentemente nere in cui abbiamo discusso se i leader maschi neri, come Martin Luther King e Malcolm x, debbano essere sottoposti a critiche femministe che li mettono di fronte alla loro posizione ambigua in merito alle questioni di genere. L’intera discussione è durata meno di due ore. Mentre volgeva al termine, una donna nera particolarmente silenziosa disse di non essere interessata a tutta questa teoria e retorica, a tutti questi discorsi, che era più interessata all’azione, a fare qualcosa, che era davvero “stanca” di tutto questo parlare. La risposta di questa donna mi ha infastidito: è una reazione tipica. Forse nella sua vita quotidiana abita in un mondo diverso dal mio. Nel mondo in cui vivo quotidianamente, le occasioni in cui donne e pensatrici nere o di colore si riuniscono per discutere rigorosamente di questioni di razza, genere, classe e sessualità sono poche. Pertanto, non capivo l’origine dell’insinuazione che la discussione che stavamo conducendo fosse comune, così comune da essere qualcosa a cui potevamo rinunciare o di cui potevamo fare a meno. Sentivo che eravamo impegnate in un processo di dialogo critico e di teorizzazione a lungo considerato tabù. Quindi, dal mio punto di vista, stavamo tracciando nuovi percorsi, rivendicando, in quanto donne nere, un terreno intellettuale nel quale iniziare la costruzione collettiva di teoria femminista. In molti contesti neri, ho assistito al silenziamento degli intellettuali e alla svalutazione del contributo della teoria e sono rimasta in silenzio. Sono arrivata a considerare il silenzio come un atto di complicità, atto a perpetuare l’idea che possiamo impegnarci nella lotta rivoluzionaria per la liberazione nera e nella lotta femminista senza far ricorso alla teoria. Come molti intellettuali neri ribelli, il cui lavoro intellettuale e insegnamento si svolgono spesso in contesti prevalentemente bianchi, sono così felice di essere coinvolta nei collettivi di gente nera che non voglio piantare grane o assumere il ruolo dell’intrusa in disaccordo con il gruppo. Quando nell’ambito di determinati contesti il lavoro degli intellettuali veniva svalutato, raramente contestavo le convinzioni prevalenti, o parlavo in modo positivo del processo intellettuale. Avevo paura che se avessi insistito sull’importanza del lavoro intellettuale, in particolare sulla teoria, o se avessi semplicemente affermato che pensavo fosse importante prepararsi accuratamente, avrei rischiato di essere considerata arrogante, come se stessi cercando di impormi. Sono spesso rimasta in silenzio. Queste minacce al proprio senso di sé ora sembrano banali, se le si prende in considerazione a partire dalla crisi che stiamo affrontando come afroamericani, al nostro disperato bisogno di riaccendere e tenere viva la fiamma della lotta di liberazione nera. Alla riunione di cui sopra, ho osato ribattere all’idea che le discussioni fossero solo uno spreco di tempo, facendo notare che consideravo le nostre parole come una forma di azione, che la nostra lotta collettiva per discutere le questioni di genere e la nerezza senza censura era una pratica sovversiva. Molte delle questioni che continuiamo ad affrontare in quanto persone nere – bassa autostima, nichilismo e disperazione, rabbia repressa e violenza che distruggono il nostro benessere fisico e psicologico – non possono essere affrontate a partire dalle strategie di sopravvivenza che hanno funzionato in passato. Ho insistito sul bisogno comune di nuove teorie che si sviluppino a partire dal tentativo di comprendere sia la natura della nostra situazione contemporanea, sia i mezzi attraverso i quali possiamo impegnarci collettivamente in una forma di resistenza capace di trasformare la nostra attuale realtà. Tuttavia, nei miei sforzi di enfatizzare l’importanza del lavoro intellettuale e la produzione della teoria come pratica sociale dal valore libertario, non sono stata rigorosa e implacabile come in altri contesti. Anche se non avevo paura di parlare, non volevo essere vista come colei che “rovina” un bel momento, quel senso collettivo di dolce solidarietà nella nerezza. Questa paura mi aveva ricordato come mi ero sentita più di dieci anni prima in contesti femministi, quando ponevo domande sulla teoria e sulla prassi, in particolare su questioni di razza e razzismo considerate potenzialmente dannose per la sorellanza e la solidarietà. Sembrava ironico che in una riunione convocata per onorare Martin Luther King Jr., che spesso aveva avuto il coraggio di parlare e agire in opposizione allo status quo, le donne nere stessero negandoci ancora una volta il diritto a impegnarci in un dialogo politico e in un dibattito di opposizione, specialmente visto che non si tratta di un evento comune nelle comunità nere. Perché le donne nere sentivano il bisogno di sorvegliarsi a vicenda, di negarsi l’un l’altra uno spazio all’interno della nerezza dove parlare di teoria senza sentirsi giudicate? Perché, quando avremmo potuto celebrare insieme il potere di un pensatore critico maschio e nero che ha osato distinguersi, c’era questa brama di reprimere qualsiasi punto di vista in grado di suggerire che avremmo potuto imparare collettivamente dalle idee e dalle visioni delle intellettuali e teoriche nere rivoluzionarie, che per la natura del lavoro che svolgono rompono necessariamente con lo stereotipo che vuole farci credere che la “vera” donna nera è sempre quella che parla di pancia, che elogia il concreto rispetto all’astratto, il materiale rispetto al teorico? Le donne nere vedono continuamente negati i propri sforzi di parlare, di rompere il silenzio e impegnarsi in dibattiti politici progressisti e radicali. Esiste un legame tra la censura, l’anti-intellettualismo e il silenzio che ci viene imposto nei contesti prevalentemente neri che presumibilmente dovrebbero essere solidali (come gli spazi dedicati esclusivamente alle donne nere) e quello che ci viene imposto nell’ambito di istituzioni che non prendono realmente in considerazione le donne nere e di colore perché “il nostro lavoro non è abbastanza rigoroso”. In Travelling Theory: Cultural Politics of Race and Representation, la critica culturale di Kobena Mercer ci ricorda che la nerezza è una questione complessa e sfaccettata e le persone nere sono influenzate da politiche reazionarie e antidemocratiche. Proprio come alcuni accademici prestigiosi che costruiscono teorie della “nerezza” in modo tale da renderle un terreno critico in cui solo pochi eletti possono entrare – usando il lavoro teorico sulla razza per affermare la propria autorità sull’esperienza nera, e negando l’accesso democratico al processo di teorizzazione – e così facendo, minano la lotta collettiva per la liberazione dei neri, così fanno quelli tra noi che reagiscono promuovendo l’antiintellettualismo e dichiarando che la teoria è inutile.