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Provate a figurarvi questa giovane coppia nera, che sta lottando prima di tutto per realizzare la norma patriarcale (quella in cui la donna sta a casa, prendendosi cura della famiglia e dei bambini, mentre l’uomo lavora), anche se un’organizzazione del genere a livello economico significa vivere nell’indigenza per tutta la vita. Immaginate come deve essere stato per loro, che lavoravano duramente tutto il giorno lottando per mantenere una famiglia di sette figli, trovarsi di fronte una bambina vispa che li interrogava incessantemente, sfidando l’autorità maschile, ribellandosi contro la norma patriarcale che cercavano tenacemente di istituzionalizzare. Deve essergli sembrato che un mostro fosse apparso in mezzo a loro nella forma e nel corpo di una bambina: una piccola figura demoniaca che minacciava di sovvertire e minare tutto ciò che stavano cercando di costruire. Non stupisce quindi che la loro risposta sia stata quella di reprimere, contenere, punire. Non c’è da meravigliarsi che la mamma mi dicesse, di tanto in tanto, esasperata e frustrata: “Non so dove ti ho trovato, ma vorrei tanto poterti restituire”. Immaginate dunque il mio dolore di bambina. Non mi sentivo veramente connessa a quelle persone strambe, a quella famiglia che non solo non comprendeva la mia visione del mondo, semplicemente non voleva ascoltarla. Da bambina, non sapevo da dove venissi. E quando non cercavo disperatamente di appartenere a questa comunità familiare che non sembrava mai accettarmi o volermi, tentavo ostinatamente di scoprire quale fosse la mia appartenenza. Cercavo con tutte le mie forze di tornare a casa. Quanto invidiavo Dorothy de Il Mago di Oz, che attraversa le sue peggiori paure e incubi solo per scoprire alla fine che “nessun posto è bello come casa mia”. Vivendo l’infanzia senza questo senso di casa, ho trovato un porto franco nella “teoria”, nel dare un senso a ciò che accadeva intorno a me. La teoria è diventata il punto di partenza dal quale poter immaginare futuri possibili, dove la vita poteva essere vissuta in modo diverso. Questa esperienza “vissuta” del pensiero critico, della riflessione e dell’analisi, è il luogo in cui mi sono sforzata di comprendere il dolore e farlo sparire. Fondamentalmente, da questa esperienza ho imparato che la teoria può essere un luogo di guarigione. La psicoanalista Alice Miller racconta, nell’introduzione al libro Prisoners of Childhood, che la sua lotta personale per riprendersi dalle ferite dell’infanzia l’ha portata a ripensare e formulare in modo nuovo il pensiero sociale e critico imperante sul significato del dolore infantile e degli abusi sui minori. Nella sua vita adulta, grazie alla sua attività, ha vissuto la teoria come un luogo di guarigione. Significativamente, doveva immaginarsi nello spazio dell’infanzia, guardare alle cose nuovamente da quella prospettiva, ricordare “informazioni cruciali, risposte a domande rimaste irrisolte durante i suoi studi di filosofia e psicoanalisi”. Quando la nostra esperienza vissuta della teoria critica è fondamentalmente legata a processi di autoguarigione e di liberazione collettiva, non esiste alcun divario tra teoria e pratica. In effetti, ciò che tale esperienza rende ancor più evidente è il legame tra questi due aspetti – quel processo reciproco in cui una rende possibile l’altra. La teoria non è intrinsecamente curativa, liberatoria o rivoluzionaria, assolve a questa funzione solo quando lo vogliamo, e orientiamo di conseguenza la nostra teoria verso questo scopo. Quando ero bambina, certamente non descrivevo i miei processi di pensiero e di critica come “teorizzazione”. Eppure, come suggerito in 'Feminist Theory', conoscere un termine non dà vita a un processo o una pratica; ci si può dedicare alla teoria senza al contempo conoscere e possedere un termine, proprio come possiamo vivere e agire la resistenza femminista senza mai usare la parola “femminismo”. Spesso le persone che impiegano in maniera sciolta certi termini – come “teoria” o “femminismo” – non sono necessariamente attiviste, le cui abitudini di essere e vivere incarnano maggiormente l’azione, la teorizzazione o l’impegno nella lotta femminista. In effetti, l’atto privilegiato di nominare spesso offre a coloro che detengono il potere l’accesso a determinate modalità di comunicazione e consente loro di proiettare un’interpretazione, una definizione e una descrizione del loro lavoro e delle loro azioni, che può essere poco accurata, e oscurare ciò che realmente sta avvenendo. Il saggio di Katie King Producing Sex, Theory, and Culture: Gay/Straight ReMappings in Contemporary Feminism offre un esempio molto utile di come la produzione accademica di teoria femminista, formulata in contesti gerarchici, spesso consenta ad alcune donne – in particolare a donne bianche, privilegiate e molto note – di attingere alle opere di studiose femministe meno note o addirittura sconosciute, senza dare il giusto riconoscimento a queste fonti. King riflette sull’appropriazione di queste opere, e del modo in cui chi legge quasi sempre attribuisce tali idee alla nota studiosa e pensatrice femminista, anche quando lei stessa afferma che tale teoria prende le mosse da idee tratte da fonti meno note. Concentrandosi in particolare sul lavoro della teorica chicana Chela Sandoval, King afferma: “Sandoval è stata pubblicata solo sporadicamente e in modo marginale, ma i manoscritti inediti che si trovano in circolazione sono molto citati e spesso appropriati da altre studiose, anche se la portata della sua influenza è raramente compresa”. Sebbene King rischi di parlare per un’altra, nell’assumere retoricamente la postura dell’autorità femminista che definisce la portata e l’estensione dell’influenza di Sandoval, il punto critico che tenta di enfatizzare è che la produzione della teoria femminista è un fenomeno complesso, che raramente si tratta di una pratica individuale e di solito emerge dal confronto con fonti collettive. Facendo eco alle teoriche femministe, in particolare alle donne di colore che hanno lavorato senza sosta per resistere alla costruzione di limiti critici restrittivi all’interno del pensiero femminista, King ci incoraggia ad avere una prospettiva espansiva sul processo di teorizzazione. La riflessione critica sulla produzione contemporanea della teoria femminista rende evidente che il mutamento in atto rispetto alle prime concettualizzazioni della teoria femminista (che insisteva sul fatto di essere più vitale quando incoraggiava e consentiva la pratica femminista) inizia a verificarsi, o almeno diventa più evidente, con la segregazione e l’istituzionalizzazione del processo di teorizzazione femminista nell’accademia, con il privilegiare il pensiero e la teoria femminista scritta rispetto alle narrazioni orali. Allo stesso tempo, gli sforzi delle donne nere e delle donne di colore di sfidare e decostruire la categoria “donna” – l’insistenza sul riconoscimento che il genere non è l’unico fattore che determina le costruzioni della femminilità – ha costituito un fattore critico che ha portato a una rivoluzione profonda nel pensiero femminista e ha interrogato e rivoluzionato profondamente la teoria femminista egemonica prodotta principalmente da accademiche, la maggior parte delle quali bianche. Sulla scia di questa rottura, l’attacco alla supremazia bianca – resosi evidente nelle alleanze tra accademiche bianche e loro pari uomini – sembra essersi originato e alimentato attorno agli sforzi comuni di formulare e imporre standard di valutazione critica per definire ciò che è teoria e ciò che non lo è. Questi standard spesso portavano all’appropriazione o alla svalutazione del lavoro “inadatto”, che all’improvviso veniva ritenuto non teorico – o non abbastanza teorico. In alcuni ambienti, sembra esserci una connessione diretta tra l’adesione delle studiose femministe bianche al lavoro critico e alla teoria degli uomini bianchi, e il voltare le spalle, il disprezzo e la svalutazione delle intuizioni critiche e delle teorie offerte dalle donne nere o dalle donne di colore. Il lavoro delle donne di colore, dei gruppi emarginati e di alcune donne bianche (ad esempio, lesbiche, femministe pro-sex), specialmente quando è scritto in un modo che lo rende accessibile a un vasto pubblico di lettrici e lettori, è spesso delegittimato in contesti accademici, anche se quel lavoro consente e promuove la pratica femminista. Sebbene venga spesso appropriato dalle stesse persone che stabiliscono standard critici restrittivi, è proprio il tipo di lavoro che secondo loro non rappresenta la teoria. Chiaramente, l’uso che queste persone fanno della teoria è, in questo caso, strumentale. La usano per creare gerarchie di pensiero superflue e concorrenti, che riscrivono la politica del dominio designando alcune opere come inferiori, superiori o più o meno degne di attenzione. King sottolinea che “la teoria trova usi diversi in luoghi diversi”. È evidente che uno dei molti usi della teoria in ambito accademico consiste nella produzione di una gerarchia di classi intellettuali in cui l’unica opera ritenuta veramente teorica è altamente astratta, specialistica, difficile da leggere e contenente riferimenti oscuri. In A Conversation about Race and Class la critica letteraria Mary Childers afferma che è ironico che “un certo tipo di produzione teorica, comprensibile da un ristretto gruppo di persone” sia diventata rappresentativa di qualsiasi produzione di pensiero critico riconosciuta, nella maggior parte degli ambienti accademici, come “teoria”. Il che è particolarmente ironico nel caso della teoria femminista. Ed è facile immaginare luoghi diversi, spazi al di fuori dello scambio accademico, in cui tale teoria non solo sarebbe vista come inutile, ma come politicamente reazionaria, una sorta di pratica narcisistica e autoindulgente in cui si cerca di creare un divario tra teoria e pratica per perpetuare l’elitismo di classe.