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Un’esperienza Vr emotivamente troppo carica può innescare un meccanismo di autoprotenzione. Tanto che, secondo un sondaggio del Columbia Tow Center for Digital Journalism, al termine della visione di un reportage in realtà virtuale il 60% degli intervistati dichiarò di non credere che le riprese fossero reali. Non sono ancora stati fatti studi per verificare gli effetti che scene violenti o di difficile visione potrebbero provocare, non è quindi ancora chiaro se possa aumentare o ridurre i comportamenti violenti delle persone nella vita reale. Un’altra preoccupazione nell’uso della Vr per il giornalismo è data dal fatto che, per la sua natura digitale, può essere facilmente modificata e manipolata. Questa non la rende diversa dagli altri media, ovviamente. Ma il fatto che sia normale che le notizie vengano modificate strategicamente non dovrebbe darci conforto. Nella realtà virtuale i potenziali pericoli di disinformazione e manipolazione emotiva potrebbero essere maggiori. Se un post su Facebook può essere ingannevole e generare comportamenti illogici, immagina quanto possa esserlo una narrazione coinvolgente. Vista la direzione che sta prendendo il giornalismo, sempre più sensazionalista, il rischio è che la Vr possa portare i giornalisti a omettere informazioni che potrebbero interferire con l’effetto desiderato, o che romanzino un fatto per farci provare più compassione ed empatia verso il protagonista. Quindi? Cosa dobbiamo fare? Quello che abbiamo sempre fatto, o che avremmo sempre dovuto fare: selezionare attentamente i giornalisti e le testate da cui informarsi così da avere meno possibilità di imbattersi in articoli manipolati e da avere maggiore sicurezza sull’attendibilità dei fatti.