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Non è quindi più solamente informare, ma esplorare, vivere, percepire. L’utente, privato della propria realtà quotidiana, immerso in un mondo diverso, sperimenta la notizia con tutto se stesso, fisicamente, in empatia con chi l’ha vissuta davvero. Il fatto di trovarsi a interagire, non con le parole scritte, ma con video immersivi, cambia la prospettiva. Dopo i primi minuti di straniamento, iniziamo a capire. Piano piano cresce il sentimento di immedesimazione che presto sfocia in empatia e comprensione. Juliette De Maeyer, docente del dipartimento di comunicazione dell’Università di Montreal, ha scritto "La realtà virtuale non salverà il giornalismo, ma potrebbe renderlo più divertente". Una conquista non da poco in un mercato in cui le vendite sono in calo e i più difficili da conquistare sembrano proprio i giovani, che sarebbero invece pronti, magari, ad accettare una tecnica narrativa nuova. I primi ad aver colto le potenzialità delle tecnologie immersive furono un team di nove ragazzi del Center for New Media della Colombia University. Utilizzando una delle prime telecamere omnidirezionali girarono un video a 360° della Parata del giorno di San Patrizio del 1997 a New York. Questo video mostrava i membri della Irish Lesbian and Gay Organization protestare per non essere stati inclusi nella parata. Sfortunatamente il filmato non ebbe il successo sperato e non si parlò più di giornalismo e realtà virtuale fino al 2012, quando la giornalista americana Nonny de la Peña produsse il documentario immersivo "Hunger a Los Angeles". Siamo in una lunga fila a un banco alimentare, quando, improvvisamente, un uomo con il diabete si sente male. I suoi zuccheri nel sangue sono scesi troppo ed è entrato in coma. L’audio è originale, registrato dalla stagista di Nonny de la Peña che fortunatamente si trovava sul luogo. La reazione della gente a questo film fu sorprendente: chi cercava di consolare l’uomo, chi piangeva, gli parlava, o prendeva il cellulare per chiamare l’ambulanza. Tale esperienza immersiva ebbe così tanto successo da segnare l’inizio dell’immersive journalism. Nel 2011 uno studio del Virtual Human Interaction Lab dell’Università di Standoford dimostrò come la realtà virtuale potesse avere un impatto trasformativo nella vita delle persone. I ricercatori presero in esame due gruppi di tester. Al primo fu fatto leggere un documento minuzioso su cosa accade abbattendo un’enorme sequoia. Il documento era particolarmente dettagliato nelle descrizioni, dal canto degli uccelli nel bosco, al suono della corteccia frantumata, alle vibrazione e al tonfo finale della pianta schiantatasi al suolo. Il secondo gruppo visse un’esperienza in una foresta virtuale con una motosega in mano (utilizzabile attraverso un controller aptico, dunque in grado di trasferire vibrazioni in maniera verosimile). Alla fine della lettura del documento e dell’esperienza virtuale, con la scusa di firmare alcune carte, i partecipanti vennero portati davanti a una scrivania. I ricercatori fecero finta di rovesciare una brocca d’acqua e i tester avevano a disposizione dei tovaglioli di carta per asciugarla. Il gruppo che aveva vissuto l’esperienza in realtà virtuale utilizzò il 20% in meno di carta rispetto a coloro che l’avevano letta. Ma questo, oltre ad aprire innumerevoli opportunità, ci obbliga a un ragionamento etico. Il rischio è che osservare atti violenti e scene di enorme disagio all’interno del mondo virtuale possa innescare meccanismi di desensibilizzazione e normalizzazione (e quindi portare a un aumento) della violenza nella vita reale.