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gurato, si restringevano nel chiuso delle mura domestiche. Intendiamo parlare delle “case di Ciano” che, con l’eccezione delle lussuose dimore del suo clan familiare, sul litorale livornese e nella campagna di Lucca, si situavano, tutte, a pochi chilometri di distanza. La residenza dei suoceri a Villa Torlonia. Quella, di Vittorio Emanuele III, a Villa Savoia. Il suntuoso salotto di Isabelle Colonna, a due passi da Palazzo Venezia, che divenne ritrovo e alcova della nobiltà capitolina e del corpo diplomatico accreditato a Roma. Poi, Villa Camilluccia, il nido d’amore che Mussolini aveva edificato per Claretta Petacci. Infine, la “Casa del Padre” (Eterno), in Vaticano, dove Galeazzo poté tessere a lungo le fila della sua diplomazia personale sfruttando le relazioni di affettuosa consuetudine strette con gli eminentissimi prelati della Curia romana. Fu in quelle dorate stanze, che si decideranno, per quasi un decennio, i destini del conte di Cortellazzo e Buccari, e disgraziatamente anche quelli del popolo italiano. Tra quelle mura, Galeazzo, in perpetua gara con Mussolini, darà libero sfogo alla sua “verbocrazia”, trasformando ogni progetto diplomatico, politico, militare in mera “narrazione”. Una “narrazione” spesso priva di fondamento ma alla quale il grande affabulatore finí per credere (un tratto, questo, tipico e immutato della classe politica italiana dalla stagione liberale alla Terza Repubblica), anche sull’orlo del baratro, abbracciando l’ombra dei suoi desideri come se fosse «cosa viva». Quelle case, tutte attraversate da odi e antagonismi sotterranei ma inestinguibili, furono, per l’intero corso del Ventennio, il teatro del grande gioco della simulazione, della dissimulazione e della mistificazione sistematica. Fu quello un gioco d’azzardo di cui il nostro Paese, alla fine, pagò il conto a prezzo d’inflazione. In quella partita Ciano recitò con astuzia levantina la sua parte, a uso dei contemporanei e dei posteri, con la stesura del Diario, che è documento inautentico e contraffatto come le tante testimonianze apologetiche che moltissimi protagonisti della storia ci hanno consegnato. E il Diario è tale perché la cronaca quasi giornaliera, redatta dal ministro dell’Italia fascista, dal 9 giugno 1936 al 6 febbraio 1943, fu deliberatamente vergata al solo fine di separare le responsabilità del suo autore da quella del Duce (padre putativo e “principale” dispotico), per quello che riguardò la direzione impressa all’Italia nella grande scacchiera delle relazioni internazionali: dalla costituzione dell’Asse Roma-Berlino alla fine del sogno di grandezza fascista. Un sogno che svaní, rovinosamente, sulle montagne dell’Epiro, nelle pianure russe, nei deserti dell’Africa settentrionale, nelle acque del Mediterraneo, sulle sponde del Ma-