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“È lui? Nei film gialli, l’ispettore di polizia lo domanda subito dopo aver sollevato il telo e mostrato il viso della vittima. Invece all’obitorio nessuno me lo chiese. La risposta era nella carezza che gli passai sul viso, finalmente in pace, o nel bacio che gli appoggiai sulla fronte. Franchino, mio fratello, era un’anima buona, tutto il male che aveva fatto lo aveva fatto a sé stesso. Lo avevano ritrovato buttato come un animale, anzi con meno dignità, come un sacco di rifiuti tra le piante del lungomare di Viareggio. Non ero pronto, non mi ero preparato. Era Natale, porca miseria, a Natale non possono accadere cose simili.” Giorgio Panariello custodisce una storia. Lui e il suo fratello minore sono stati entrambi abbandonati dalla madre subito dopo la nascita. Giorgio viene affidato ai nonni materni, Franco invece finisce in un istituto. Mentre Giorgio cresce e diventa uno degli uomini di spettacolo più amati d’Italia, Franco cade nella tossicodipendenza. Fino alla tragica fine. In questo libro per la prima volta Panariello ha deciso di raccontare il filo nascosto (la preoccupazione costante, il senso di colpa) che da sempre corre nella sua vita. Un libro straziante e dolcissimo, che grazie all’onestà e all’accuratezza dei sentimenti sa muovere le corde più profonde delle nostre emozioni. L’autore Giorgio Panariello (Firenze, 1960) è attore di teatro, cinema e tv. Per Mondadori ha pubblicato Non ti lascerò mai solo, Guardami negli occhi, So che ci sarai sempre e Adesso tu. Giorgio Panariello IO SONO MIO FRATELLO Io sono mio fratello A Claudia Mio fratello è figlio unico perché è convinto che anche chi non legge Freud può vivere cent’anni. RINO GAETANO Prologo «È lui?» Nei film gialli, l’ispettore di polizia lo domanda subito dopo aver sollevato il telo e mostrato il viso della vittima. Invece all’obitorio nessuno me lo chiese, non ricordo nemmeno il grado o il viso del poliziotto incaricato di sbrigare la penosa formalità. La risposta era nella carezza che gli passai sul viso, finalmente in pace, o nel bacio che gli appoggiai sulla fronte. Ancora mi sembrava tiepida, rispetto al gelo che si era infilato dentro la stanza, e dentro di me. Tutto era ovattato, lontano, come se stesse accadendo a un altro. Mi sentivo come in una palla di vetro, una di quelle con la neve finta che si vedono sui banchi dei mercatini di Natale. Non ero pronto, non mi ero preparato. Come avrei potuto? Solo due ore prima dormivo nel tepore della mia casa. La telefonata di Carlo Conti aveva fatto irruzione nel silenzio. Le sette del mattino, un orario insolito, non potevano essere gli auguri. In altri mille momenti della nostra vita mi ero aspettato quella notizia, non quel giorno, non in quel modo. Era Natale porca miseria, a Natale non possono accadere cose simili. Ci eravamo lasciati pochi giorni prima. Avevamo cenato, mangiato, bevuto, brindato alla fine dei nostri guai, seppellendoli sotto una valanga di risate, come una famiglia normale. Ancora lo vedevo sulla porta, con il mio regalo sottobraccio. Se ne era andato lasciandomi il suo: la promessa, mantenuta, di aver davvero cambiato vita, una volta per tutte. E io per la prima volta sapevo di potergli credere, di potermi fidare. E invece lo avevano ritrovato buttato come un animale, anzi come un sacco di rifiuti tra le piante del lungomare di Viareggio, dove andavamo in motorino da ragazzi per guardare i passanti o i carri del Carnevale. Eccoci ora, io e lui, finiti dentro una palla di vetro che qualcuno aveva capovolto. Quanta neve ci stava cadendo addosso. Lo guardai per l’ultima volta, quasi a cercare qualcosa sul viso che non avevo mai notato. Me ne andai prima che finissero di coprirlo, nell’illusione di evitare un gesto che sarebbe stato definitivo: non avrei mai più visto la sua faccia. Un telo gelido si stava stendendo anche su di me. Uscito nella luce lattiginosa di gennaio, inspiravo tutta l’aria che i miei polmoni potevano contenere. All’esterno dell’ospedale c’erano dei fotografi, con l’ingrato compito di rubare qualche scatto. Non mi ha mai dato fastidio offrirmi agli obiettivi, anzi, è una piacevole conseguenza del mio lavoro, eppure allora non avevo nemmeno un sorriso. Mi sentivo davanti a un plotone d’esecuzione, in uno stato di resa totale. Riparai dentro un bar. Davanti a un caffè, gettai uno sguardo sui palazzi intorno. Invidiavo il luccichio intermittente degli alberi di Natale, lo scintillio dei balconi addobbati, persino i Babbi Natale appesi alle ringhiere, non si sa se nell’intento di portare doni o svaligiare casa. Finii a pensare che fosse il periodo migliore per una moglie che voleva tradire il marito. Nel caso fosse rientrato prima del previsto, le sarebbe bastato procurarsi un costume da Babbo Natale e appendere l’amante alla ringhiera del balcone. L’immagine mi fece sorridere. È la maledizione del comico, scovare la battuta anche nelle situazioni più tragiche. Forse anche la sua fortuna più grande. Ho invidiato il Natale degli altri, perché il mio non sarebbe stato più lo stesso. Era successo tutto all’improvviso e non avevo avuto neanche il tempo di ragionare. Lo avevano portato dall’obitorio direttamente in chiesa, una chiesa affollatissima. Accanto a me c’era anche Leonardo Pieraccioni, che Franco adorava e che lo faceva ridere più di chiunque altro. Tutto si era consumato velocemente, come se la sua vita non valesse nemmeno la veglia di una notte, e in poche ore mi ero ritrovato al cimitero di Montignoso, davanti alla terra smossa e alla sua bara. Solo lì, finalmente, piansi tutte le lacrime che avevo trattenuto davanti alla folla di giornalisti, fotografi, curiosi. Sapevo che le mie lacrime erano le più attese, le mie e quelle di Renato Zero. Era in Versilia per qualche giorno di vacanza, avevamo in programma di passare Capodanno insieme. Ci ritrovammo a condividere il mio dolore. Nei pressi di casa nostra si trasferì una coppia di imprenditori di Ancona. Erano due persone di mezza età, gentili e di buon cuore, senza figli. Avevano aperto un laboratorio artigianale a Montignoso per la produzione di tomaie da destinare alle grandi aziende calzaturiere delle Marche. Si presero a cuore Franco, che sapevano vivere in condizioni disagiate. Lo invitarono prima a cena o a pranzo, poi qualche volta a dormire. Si convinsero che avrebbe potuto colmare il vuoto che può provocare la mancanza di un figlio. Sapevano che era un ragazzo difficile, ma la voglia di cambiare la loro vita e la sua li spinse a prendersene cura e a volerlo adottare. Gli avrebbero dato il loro nome, un mestiere e un futuro, visto che un giorno avrebbe ereditato l’azienda. L’intreccio di madri vere e putative, di padri inesistenti e acquisiti si sarebbe ulteriormente ingarbugliato, ma nella confusione quella soluzione poteva avere un senso. Non avevo messo in conto che mio fratello potesse diventare un giorno il mio agiato vicino di casa, eppure in quel momento era manna caduta dal cielo: ci sarebbe stata una distanza di sicurezza tra lui e mio nonno e finalmente avrebbe trovato l’accoglienza e il calore familiare che non aveva mai conosciuto e che non sperava più di trovare. Il finale perfetto di un’imperfetta sceneggiatura. Naturalmente, niente andò come doveva. Mio fratello non abiurò, rimase fedele al caos che imperava nella sua vita. Fatto salvo un periodo in cui recitò la parte del figliol prodigo, continuò a farsi di pasticche, ubriacarsi, non presentarsi al lavoro. Era la sua “normalità”. Il ruolo del bravo ragazzo educato e tirato a lucido che si era sforzato di interpretare era solo una parodia di sé stesso. Nella sua testa l’adozione da parte della coppia marchigiana non era un’opportunità, ma l’evidenza di un secondo abbandono dopo quello di mia madre e quello dei miei nonni. Due volte rifiutato, troppo anche per lui. La parabola si concluse un giorno d’estate: il figliol prodigo svuotò la cassaforte di contanti e gioielli e ottenne così la sua prima denuncia, proprio da chi aveva tentato di strapparlo alla sua sorte. Nello stesso momento la Nazionale italiana vinceva i Mondiali per la terza volta. I caroselli per le strade, tra i vicoli, nelle calli, lo strombazzare eccitato dei clacson, il frastuono della gente in festa, quel “Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!” gridato ovunque ebbero l’effetto di un’indulgenza plenaria, una remissione di tutti i nostri peccati e coprirono sotto un cielo di bandiere tricolore la nostra ennesima sconfitta. Brigitte Bardot Tornammo a sopravvivere nella nostra condizione di confinanti: io in casa, al caldo delle mura domestiche, lui nella baracca fredda e umida. Quell’alloggio gli costò la salute. Non ero presente quando fu colpito da febbre alta e da una tosse che gli squarciava il petto. Non ricordo dove fossi nemmeno quando fu ricoverato d’urgenza al San Martino di Genova. Ricordo solo che era autunno inoltrato e che con la Ma’ vagavo nei corridoi dell’ospedale. Io reggevo una borsa di plastica con il necessario per il ricovero, lei avanzava a passi piccoli, stretta nel cappottino elegante che riservava alle occasioni importanti. Sembrava un uccellino che si portava dietro il suo nido.