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Casale Monferrato, ore 21 del 6 maggio 1976. Io ero partito il mese prima da casa mia per fare un anno, allora obbligatorio, di militare. era il CAR (Centro Addestramento Reclute) e durava una quarantina di giorni, poi tutti nelle caserme operative, la maggior parte situate in Friuli (esistevano ancora le cortine di ferro; a est, di là dal confine, c’ erano i Paesi comunisti sotto l’ egida dell’ Unione Sovietica). Quella sera eravamo sdraiati in branda, stanchi dopo ore di marce e servizi vari all’ interno della caserma, chi leggeva, chi ascoltava la radiolina, chi scriveva una lettera. Ad un certo punto uno di noi disse a voce alta di chiudere le finestre perché c’ era vento e faceva sbattere i lampadari, infatti anche quello che stava sopra il mio letto oscillava vistosamente. Al momento nessuno diede molta importanza a questo evento, solo dopo un’ora circa, forse di più, cominciò a girare voce che fosse stata una scossa di terremoto. Molti già dormivano. L’ indomani la caserma era in subbuglio, le voci si susseguivano frenetiche, il terremoto è stato in Friuli, è crollato tutto, anche le linee dei treni erano distrutte (almeno così si sperava, incoscientemente, visto che saremmo rimasti lì al sicuro). Non fu così, i treni andavano nella maggior parte delle stazioni friulane, poi ci avrebbero pensato i camion a trasportare le reclute nelle varie caserme. Si partì una decina di giorni dopo verso le varie destinazioni, la mia era Palmanova, vicino Udine. In treno ci volle più di un giorno di trasferimento, visto che la tradotta militare doveva dare priorità di passaggio a tutti gli altri treni. Arrivai di notte e, in caserma, ebbi il mio primo contatto con il terremoto, le casette erano tutte ad un solo piano, nessun crollo, sembravano solo vuote. L’indomani mattina, al risveglio, vidi il piazzale pieno di camion, nei quali dormivano la maggior parte dei militari, solo alcuni erano rimasti nelle casette con una decina di noi arrivati durante la notte precedente. Dopo un paio di giorni, finita la paura, tutti rientrarono. La caserma non aveva subito nessun danno, forse qualche crepa, nulla di strutturale. Da questo momento iniziò il vero contatto con la tragedia. La mia caserma era stata assegnata a fornire aiuti nella zona di Gemona, tra l’altro epicentro della scossa. Ricordo il primo viaggio verso Gemona come una serie ininterrotta di macerie, casali crollati, case senza tetto e alle porte del paese un palazzo di cinque o sei piani completamente crollato, si vedevano gli strati uno sopra l’altro, poi solo case sventrate. Noi dovevamo occuparci delle cucine da campo, montarle e dare un servizio a militari e cittadini che lavoravano alle macerie. Tra tanta desolazione c’ era un brulicare di persone che già iniziava a organizzare la ricostruzione di tutto quel disastro, voleva rimettere in piedi la propria casa subito, senza perdere tempo. Nel frattempo le scosse di assestamento continuavano senza sosta, quasi non ci si faceva più caso. Noi militari alternavamo il servizio ai terremotati con la vita di caserma, le guardie in altana si facevano ai piedi della stessa, le uscite serali nella cittadina di Palmanova, poco colpita ma parecchio transennata, erano abbastanza spettrali. Solo dopo qualche mese si raggiunse una parvenza di normalità. Tra i vari servizi svolti ne ricordo un paio in modo particolare. Il primo fu all’ aeroporto militare di Campoformido dove scaricavamo gli aerei contenenti gli aiuti che arrivavano ormai da ovunque. Rimanemmo tre giorni dormendo in un hangar, su dei cartoni da imballaggio. L’ episodio mi è rimasto impresso perché verso le dieci di sera una scossa è stata particolarmente forte e la struttura dell’hangar ha emesso un rumore metallico per circa quindici secondi lasciandoci tutti ammutoliti, poi all’ unisono (eravamo una decina) ci siamo fiondati fuori a fare pipì, come i cani quando si spaventano. Dopo questo episodio ricordo di essere andato in licenza, quindi ero a casa mia quando, l’undici settembre, ci fu un’altra serie di scosse importanti che fecero ancora danni notevoli. Quando tornai in caserma, di notte, le casette erano vuote e i camion affollavano il piazzale. Raggiunsi il mio letto e i pochi rimasti lì a dormire mi raccontarono che fu abbastanza spaventoso e che tutti si lanciarono fuori dalle finestre (al piano terreno), qualcuno facendosi anche male. Il secondo episodio riguarda sempre un servizio svolto in un paese vicino Gemona di cui non ricordo il nome. Ricordo che in tre eravamo dislocati presso una famiglia in cui il padre e uno dei figli erano morti sotto le macerie della loro casa. Era rimasta la madre e una figlia con il marito. Era il periodo in cui si raccoglievano le patate e loro, da soli, non ce l’avrebbero fatta. Ricordo il cavallo con l’aratro che smuoveva la terra e le patate che affioràvano, noi dietro ginocchioni a raccoglierle. Faceva ancora caldo, ma la madre ci seguiva con il bottiglione del vino per dissetarci. Ricordo solo che la sera, nel sacco a pelo, le stelle ruotavano in modo poco cosmico. Di questo periodo in Friuli mi è rimasto impresso il fatto che tanti piangevano, ma lo facevano continuando a lavorare.