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1 La filosofia educativa Il concetto di dispositivo didattico elaborato da Perrenoud rende comprensibile la complessità degli elementi e delle relazioni che lo contraddistinguono. - il dispositivo deve essere auto-consistente in termini di coerenza e coesione. I diversi elementi debbono essere connessi da logiche chiare, comprensibili. Ogni dispositivo è ispirato dalla tipologia dei risultati che si vogliono conseguire selezionati in base alla “filosofia educativa” del progettista. Per filosofia educativa si intende quell’insieme di idee maturate da un insegnante in relazione - al modo in cui gli studenti apprendono meglio, quali sono gli ostacoli che possono incontrare e quindi come dovrebbe essere attuato un insegnamento “efficace” ma anche sostenibile, per se stessi e per gli alunni; le motivazioni, maturate nella storia personale, che hanno indotto un determinato orientamento verso l’insegnamento. Non è raro trovare, all’origine delle scelte professionali, un processo di identificazione (voler essere come quel particolare insegnante che è riuscito a coinvolgere, a motivare, che ha dimostrato competenze nella relazione tanto da farlo percepire come figura importante di riferimento) e di differenziazione (è quel processo per cui, una volta vissute determinati situazioni non positive in situazioni di apprendimento formale, si scegli di diventare insegnanti “per fare diversamente”, quindi per riuscire a proporre un modello maggiormente efficace, positivo per gli studenti; - alla gestione educativa e alla relazione in aula (Goodyear e Allchin 1998). Le esperienze vissute nelle aule sono essenzialmente relazionali: il clima di fiducia e di rispetto influenzano anche la tipologia di dispositivi attraverso i quali si può sviluppare l’insegnamento, così pure il forte bisogno di mantenere un controllo da parte dell’insegnanteinfluenza la predisposizione di altri dispositivi; - ai valori personali ed educativi che determinano le scelte fondamentali (Grasha e Fuhrmann 1983). C pensi solamente al caso macroscopico che stanno ponendo le molte culture che oggi vivono all’interno della scuola, incarnate negli alunni, portatori di diverse prospettive valoriali. La natura dei dispositivi progettati è quindi il prodotto di un insieme di aspetti riconducibilialle variabili soggettive del progettista e delle variabili di contesto che ne determinano la sostenibilità. Rossi (2005)2 propone un’articolazione delle tipologie dei dispositivi in base alle decisione che un formatore effettua e che sono strettamente dipendenti dalla sua filosofia educativa e dalla valutazione del contesto. Le traiettorie “antinomiche” che reggono il triangolo sono: - la priorità assegnata all’apprendimento delle conoscenze soprattutto con modalità ispirate da una evidente asimmetria di sapere tra il docente e lo studente, o all’attivazione dello studente affinché divenga protagonista di un personale e consapevole processo di conoscenza; - la priorità assegnata all’individualizzazione o alla personalizzazione. Nel primo caso l’insegnante sarà impegnato nel definire il risultato di apprendimento e a costruire una serie di tappe, in alcuni casi più dettagliate e facilitanti, in altri casi proponendo dei passaggi più ampi, per far sì che tutti gli studenti possano raggiungere i medesimi traguardi. Tali pratiche sono evidenti quando si tratta di rendere accessibile un contenuto ad alunni che presentano particolari difficoltà e il sapere da acquisire è fra quelli indispensabili per una buona scolarizzazione o per l’autonomia personale. - la priorità assegnata alla persona o alla comunità. Si tratta di definire quali attività e proposte didattiche siano funzionali a valorizzare il lavoro individuale o la dimensione collettiva dell’apprendere; - la priorità assegnata all’autodirezione da parte dello studente o all’eteroregolazione. 2 I dispositivi istruzionali Al vertice 1 si trovano tutti quei dispositivi che possono essere definiti “istruzionali” in quanto presentano priorità assegnate all’acquisizione delle conoscenze e delle procedure. Le pratiche di insegnamento sono quelle che vengono riconosciute quasi come caratterizzanti la scuola: la lezione frontale solitamente seguita da esercitazioni e da momenti di verifica dell’apprendimento. Si ritrovano anche i percorsi didattici di “scoperta guidata”, vale a dire quelle modalità didattiche che diversi insegnanti propongono alle classi quando vogliono modificare la semplice esposizione: partono da un dubbio, da una domanda, ma il percorso che poi porterà alla scoperta della risposta è quasi completamente guidato dai materiali, dalla scansione delle attività, dai feed back che il docente stesso fornirà cercando di non far modificare quanto previsto. Al vertice 2 si posizionano i dispositivi che sono potenzialmente utili per lo sviluppo di competenze nell’autoregolazione e si avvalgono di attività prevalentemente di tipo collaborativo, richiedono la capacità di negoziare i significati e di interagire correttamente in gruppo dal punto di vista comunicativo e relazionale. Un contributo per comprendere questa tipologia di dispositivi viene anche dalle riflessioni di Jonassen (1999)5. “Due sono i nodi alla base del modello di Jonassen: l’ambiente e il problema. Jonassen (1999) suggerisce la predisposizione di ambienti ricchi e strutturati per facilitare la costruzione di conoscenza. Dato che la conoscenza non può essere trasferita, l’insegnamento potrebbe consistere nel preparare situazioni problematiche aperte e un ambiente con strumenti e supporti cognitivi utili a chi apprende e da lui gestibili. Inoltre, per attivare competenze complesse, Jonassen propone di impegnare lo studente nella soluzione di problemi aperti e in attività di progetto. Le situazioni-problema possono avere differenti livelli di complessità. Jonassen ne propone quattro: – question-based: una domanda che non ammette una risposta certa e sicura; – case-based: uno studio di caso ancorato a un contesto autentico, che richiede allo studente di acquisire conoscenze e abilità per matica Pegaso Il triangolo dei dispositivi – project-based: lo studente deve realizzare un artefatto cognitivo o materiale per risolvere una situazione problematica; il percorso richiede tempo e vede al suo interno diversi casi connessi; – problem-based: presenta una situazione problematica ancora più complessa, la cui soluzione richiede competenze derivanti da differenti corsi, la capacità dello studente di organizzare il proprio lavoro e la propria formazione, la capacità di individuare e risolvere sottoproblemi. La situazione problematica è motivante e rilevante per lo studente, è una situazione autentica; è mal strutturata o mal definita, nel senso che può essere risolta in molteplici modi, a differenza dei problemi ben strutturati, che richiedono di mettere in atto una procedura nota. 4 I dispositivi per la riflessione Al vertice 3 si posizionano i dispositivi che favoriscono le attività di riflessione e di autovalutazione e, grazie ai quali, lo studente matura la consapevolezza circa il percorso di apprendimento, anche ripercorrendo le fasi che ha attraversato nella propria formazione. Si ritrovano, quali attività caratterizzanti, la raccolta di documentazioni, la produzione di scritture di tipo riflessivo, sintesi e rilanci verso una più matura dimensione professionale e culturale. Trovano spazio in quest’area due dispositivi particolari: il Portfolio e il Bilancio delle competenze. Se inizialmente il portfolio era individuato più come artefatto da produrre per mostrare le migliori opere di un professionista, rivisitato in termini formativi è divenuto artefatto/processo che alimenta la capacità di ripercorrere le azioni, il succedersi di eventi formativi anche nell’arco di diversi anni. Lo scopo fondamentale non è la qualità del portfolio, bensì il contributo che la sua costruzione può dare per rendere il soggetto capace di comprendere la traiettoria del proprio agire e dei fattori che influiscono sui mutamenti. Il portfolio è ormai un dispositivo che permea tutt Ne è un esempio il Bilancio delle competenze applicato al modello di formazione che regola l’anno di prova e formazione per gli insegnanti neo assunti. “Il Bilancio di competenze (BdC) è un percorso utilizzato a livello europeo per supportare il soggetto nell’esplicitazione delle proprie competenze. In particolare una fase del Bilancio prevede che sia il soggetto ad individuare quali pratiche realizzate possano rendere visibile la sua capacità di mobilitare le risorse personali e di contesto per affrontare problemi inediti. La scelta di denominare “Bilancio delle competenze” un dispositivo, proposto agli insegnanti neoassunti durante l’anno di formazione e prova, volto a fare il punto sulle competenze acquisite per progettare la propria formazione, deriva non tanto dall’uguaglianza con il BdC di matrice francofona (Ruffini e Sarchielli, 2001; Lemoine, 2009), quanto dalla similarità degli obiettivi e di alcune posture caratterizzanti sia il soggetto-attore, sia il tutor-accompagnatore. Il “vero” Bilancio di Competenze, istituito in Francia nel 1991 (Legge 91-1405 del 31/12/1991), prevede un percorso articolato in tre fasi (accoglienza, raccolta dei dati, sintesi) che si sviluppano in tre mesi alla presenza di esperti professionisti dell’orientamento e della psicologia del lavoro in grado di condurre con metodologie accurate dei test relativi alle disposizioni ed attitudini, test cognitivi ed interviste strutturate. Per quanto riguarda gli obiettivi, si ritrova che il BdC è orientato a favorire nell’individuo una migliore conoscenza delle competenze acquisite e una maggiore responsabilizzazione rispetto alla propria evoluzione professionale.