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In sintesi il progetto, portato avanti e abbandonato tra il '94 e il '98 a più riprese in entrambi gli schieramenti, è quello di costituire un «Grande Centro», che raccolga i cattolici sotto un'unica bandiera e che sia soprattutto capace di garantire di elezione in elezione la maggioranza al polo di turno preferito, con una prospettiva di ritorno al proporzionale, a suggello dell'iniziativa. Il piano, a seconda del momento e del promotore, presenta poi delle varianti. Nel centrodestra, per esempio, c'è chi spinge il Cavaliere nell'abbraccio mortale con i cattolici virando il timone verso il centro, isolando cosi Alleanza nazionale. Nel centrosinistra, o meglio nel Ppi, non passa sotto silenzio l'idea di avvicinarsi a Forza Italia, staccandosi dagli alleati comunisti. Sulla linea opposta, in entrambi i poli, molti ritengono il progetto complementare e non alternativo agli alleati tradizionali. Berlusconi intercetta queste trame, avverte dissensi e intravede congiure. Risponde a modo suo: «Dicono che sto male, che sto per lasciare questo mondo, ma non ho nessuna intenzione di fare l'astronauta. Mi avrete qui ancora per molto tempo e non ho intenzione di mollare la politica». Gli fa eco Gianfranco Fini che si scaglia contro «i becchini, le prefiche, tutti coloro che sono al capezzale del Polo pronti a dire che è morto». E incalza: «L'avversario più pericoloso? E il riformarsi della Dc ma prima di far saltare il Polo bisogna pensarci dieci volte».4 La Chiesa, come sempre più compatta nelle mirate iniziative internazionali, stavolta mostra difficoltà a esprimere una linea unitaria nella cosiddetta politica interna. Vuole cogliere l'occasione per allargare le sue già ampie capacità d'influenza, temi come scuola, legge 194 e procreazione assistita sono di emergente attualità, ma in quegli anni è diffìcile seguire mutamenti e sfumature, i due tradizionali blocchi elettorali sono spariti. Fra l'altro, le inchieste per corruzione hanno irrigidito l'ala intransigente del Vaticano che assume posizioni assai ferme contro la «vecchia» politica, incoerente rispetto ai principi della fede. La Dc non ha infatti seguito i valori etici cristiani, la sua opera è stata quindi di «contro testimonianza» come sintetizza già nel 1995 il cardinale Camillo Ruini, presidente del la Cei, la Conferenza episcopale italiana. Ruini dà per finita l'unità politica dei cattolici, invitando sacerdoti e vescovi a non schierarsi per alcun partito. Fino a Giovanni Paolo II, che al convegno ecclesiale di Palermo del 1995 lancia a tutti un monito: La Chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito [...] ma ciò nulla ha a che fare con una diaspora culturale dei cattolici, con un loro ritenere ogni idea o visione del mondo compatibile con la fede o anche con una loro facile adesione a forze politiche e sociali che si oppongono o non prestino sufficiente attenzione ai principi della dottrina sociale della Chiesa. In realtà l'appello è prematuro: Ruini in quegli anni sostiene che la «politica s'incontra inevitabilmente con la religione e specie con la fede cristiana», la Chiesa cioè non può disinteressarsi della politica e dei politici. In quegli anni Ruini lavora sottotraccia per dare una convergenza ai partiti d'ispirazione cristiana, e ai giornali dell'epoca5 non è diffìcile delineare la mappatura delle simpatie del mondo cattolico. Con le dovute cautele, si possono collocare il segretario di Stato Angelo Sodano,6 Giovanni Battista Re, il siciliano Salvatore Pappalardo7 e Silvio Oddi nell'area vicina al centrodestra, così come l'Opus Dei e la Compagnia delle Opere del movimento di Comunione e Liberazione. Per Prodi, o comunque sensibili ai richiami dei popolari, un altro gruppo di porporati tra i quali i cardinali Ruini, Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano e quello Emerito di Ravenna, Ersilio Tonini, il vescovo Luigi Bettazzi, figura di riferimento del pacifismo cristiano e movimenti come l'Azione cattolica, i gesuiti, le Acli e Pax Christi. Gli entusiasmi ai pionieri del «Grande Centro» non mancano. In Molise, con il ribaltone del febbraio 1998, Ppi, Ccd, Cdu, Nuova Dc e Rinnovamento italiano rastrellano sedici voti su trenta e mandano a casa la vecchia giunta per la prima amministrazione democristiana della seconda Repubblica. I popolari «traditori» vengono espulsi dal partito perché precursori del «Grande Centro». Già in primavera si lavora infatti per un'assise del Ppi, una convention che benedica la nascita di un «Grande Centro»: «Ci sarà Maccanico, credo Dini. Marini spinge perché anche Di Pietro venga coinvolto - annuncia Enrico Letta, all'epoca vicesegretario - e credo che pure Mastella possa avere qualche interesse per quell'incontro». Il segretario del partito Franco Marini cerca di raccordarsi con Cossiga per avviare dei laboratori elettorali, a iniziare dalle imminenti amministrative in Friuli: «prova tecnica» generale del «Grande Centro». Certo, nessuno dei due sogna la vecchia Dc, ma la voglia di Cosa Bianca, di Casa comune cristiana è dirompente. E contagiosa. Proprio in quei mesi primaverili del 1998, un'inchiesta della Procura di Roma muove i primi passi su un'ipotesi investigativa che già si preannuncia sconvolgente. La nascita del «Grande Centro» starebbe per essere finanziata attraverso il riciclo di enormi somme di fondi neri custoditi all'estero. La cosa, nota ad alcuni esponenti del Vaticano, non risulterebbe sgradita. Il fascicolo dell'indagine viene assegnato a un magistrato di provata esperienza: il procuratore aggiunto della capitale Giancarlo Capaldo, che fino al 2005 porta avanti le indagini seguendo due semplici regole: prudenza e riservatezza. Capaldo rubrica il fascicolo come «atti relativi a», il cosiddetto «modello 45» che segna la fase embrionale degli accertamenti. Non iscrive quindi nessuno sul registro degli indagati. Non solo. Per evitare di incidere sulla scena politica nazionale, blinda le verifiche e intima ai collaboratori il massimo segreto. Non è diffìcile intuire le possibili ripercussioni. Per la prima volta la magistratura verifica se il Vaticano abbia partecipato se non addirittura diretto la regia della nascita di un partito con un'intromissione senza precedenti nella vita politica italiana. Non solo. Questo partito sarebbe alimentato da fondi frutto di riciclaggio. Per ben sette anni, in silenzio, Capaldo scava cercando elementi a sostegno di questa teoria, un ipotetico anello di congiunzione tra soldi custoditi in cassette di sicurezza all'estero e la piattaforma della nuova Dc. Ma se il progetto di finanziare il «Grande Centro» è mai esistito, di sicuro è stato presto abbandonato. Non emerge nulla che abbia rilevanza penale, nulla di quanto necessario per formulare delle accuse. Così, nel 2005, Capaldo si convince ad abbandonare le verifiche e chiede l'archiviazione. Il fascicolo finisce in soffitta. Di questa inchiesta per quasi tre anni nessuno saprà nulla, anche se nel 2000 i giornalisti individuano qualche impronta, seppur ancora parziale, con un scoop firmato da Rita Pen-narola su «La Voce della Campania», che rimane però senza seguito.8 Eppure questa storia, sebbene priva di rilevanza penale, va raccontata. Per le contraddizioni, i collegamenti con il passato e le incongruità che l'hanno caratterizzata. Per i suoi primi e incerti passi, la miriade di accertamenti eseguiti, gli oscuri episodi centrali che l'hanno poi segnata tra impensabili coincidenze. Ma anche per le perplessità che proprio Capaldo solleva oggi dopo un lungo silenzio.L'humus informativo che l'inchiesta ha lasciato in eredità alimenta direttamente indagini, alcune delle quali tuttora in corso e di cui mai si è parlato.