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Se si sommano i 72,5 miliardi dello Ior ai 94,4 miliardi dell'Obolo di san Pietro, si scopre che Wojtyla nel 1994 può contare su una cassa personale per carità e opere di bene di 166,9 miliardi (121,3 milioni di euro). Ai quali andranno aggiunti negli anni i proventi della Centesimus annus pro pontefice, il fondo che raccoglie i frutti delle iniziative degli imprenditori cattolici. La somma quindi è assai considerevole, di gran lunga superiore alla cosiddetta «Carità del papa», ovvero a lasciti anonimi e assegni che responsabili di enti e di associazioni, personalità e privati cittadini, ricevuti in udienza, lasciano con discrezione al santo padre. E, forse, fra tutti gli utili, rimane al di sotto solo dell'Obolo di san Pietro. Se tale somma fosse inserita nei bilanci complessivi del Vaticano, condizionerebbe tutte le voci facendo lievitare di molto l'attivo complessivo. Invece, resta un'informazione delicata, un dato che Caloia confida direttamente all'interessato, Giovanni Paolo II Come poi questi soldi vengano spesi, sebbene siano frutto di una banca che raccoglie i conti delle comunità dei fedeli e siano nel portafoglio del pontefice, non è dato sapere al di là di una stretta cerchia di cardinali. Una parte dell'Obolo di san Pietro e degli utili dello Ior finisce in opere di carità nel mondo tramite il Consiglio pontifìcio Cor Unum, che gestisce ammirevoli progetti nei paesi in via di sviluppo con il contributo di fondazioni benefiche, e per circa un milione e mezzo di euro ogni anno tramite l'Elemosineria apostolica.9 La verità è quindi un'altra. I 72,5 miliardi sono «a disposizione di Santità Vostra», come verga il banchiere a Wojtyla, e rappresentano il risultato di una banca attiva in tutto il mondo, l'effetto della ristrutturazione finanziaria dello Ior iniziata con l'arrivo di Caloia in Vaticano nel 1989. Si tratta di bilanci sempre in crescita. In quell'anno il totale messo a disposizione ammonta a «solo» 20 miliardi.10 Lo Ior quindi è una fonte di denaro certo per le attività del pontefice. Nel 1992, quando i conti sono in rosso, Giovanni Paolo II può contare su 60,7 miliardi.11 Negli anni successivi la somma lievita ancora. Dall'archivio Dardozzi i documenti indicano utili netti per 75 miliardi nel 1994 e per 78,3 nel 1995. A febbraio del 1996, Caloia conferma così a Sodano di «mettere a disposizione della Commissione cardinalizia una somma pari a 78,3 miliardi a fronte di 231 miliardi di utile lordo».12 A loro volta, i cardina li membri di quest'ultimo organo, incaricati di controllare l'attività della banca, sono destinatari della «riconoscenza dell'Istituto per l'opera degli eminenti cardinali - spiega Caloia in una missiva a Sodano - per le cui opere di bene fu disposta la somma individuale di 50 milioni».13 In Parlamento lo chiamerebbero volgarmente «gettone di presenza». Uno Ior da 5 miliardi di euro Ma cosa è diventato lo Ior dopo Marcinkus e de Bonis? La banca ha ormai assunto dimensioni di tutto rispetto: un monitoraggio interno ufficiale e rimasto riservato, compiuto nella primavera del 1996,14 fotografa per la prima volta i patrimoni che il misterioso Istituto gestisce. Ovvero ben 1388 portafogli sia in lire sia in valuta straniera. I primi sono costituiti da 729 clienti che hanno affidato allo Ior 957 miliardi, 659, invece, sono i portafogli con patrimoni in dollari per altri 1194 miliardi. In tutto: 2151 miliardi (1555 miliardi di euro). Si tratta di clienti facoltosi, visto che un terzo è titolare di depositi sopra il miliardo.15 Clienti seguiti con tutte le attenzioni del caso da novantasette dipendenti della banca, a loro volta ben pagati come tutti i civili che lavorano alla Santa Sede: gli scatti automatici dello stipendio sono infatti del 5 per cento annuo per i «bancari», mentre quelli degli altri uffici ricevono addirittura il 6 per cento visto che lo Ior «non è considerato parte dell'amministrazione vaticana».16 La cura di Caloia si fa quindi sentire. Al 31 dicembre 1995 l'Istituto conta un capitale di 948 miliardi e raccoglie dai propri clienti 4678 miliardi di lire, che corrispondono a 3 miliardi di euro. Si tratta di conti correnti di diocesi, istituti e ordini religiosi e persino di privati, a iniziare dalla Democrazia cristiana. Questo dato inedito e ufficiale avvalora la stima effettuata tredici anni dopo che ipotizza esser presenti allo Ior depositi per almeno 5 miliardi di euro.17 Nei Consigli d'am ministrazione i toni sono entusiasti, lo Ior assomiglia a una banca d'affari: «Il profitto derivante dalla compravendita di valute e titoli ha superato del 40 per cento i risultati previsti dal budget»;18 ancora: «La crescita è principalmente dovuta al controvalore dei titoli (strumenti e bond monetari) venduti per 193,1 milioni di dollari nell'ultima settimana di novembre e temporaneamente investiti a breve termine, con interessi maturati il 1° e il 3 novembre 1993, giorni nei quali è stato effettuato un nuovo acquisto di bond dello stesso tipo per un controvalore di 191,8 milioni di dollari».19 Nel 1994 Caloia taglia i generosi rendimenti riducendoli dall'8 al 6,3 per cento per i conti correnti, e porta al 7 per cento quelli per i depositi vincolati. Ma la clientela non si lamenta. Non solo perché la totale discrezione è caratteristica senza prezzo, ma anche perché si è trattati con grandissimo riguardo. E poi si tratta di interessi comunque elevati. Bisogna infatti ricordare che in Vaticano i guadagni sono netti, visto che non si pagano le tasse. L'11 marzo 1994 i revisori Marco H. Rochat e Jacqueline Consoli della Revisuisse Price Waterhouse consegnano ai membri del Consiglio di sovrintendenza le loro considerazioni sullo stato di salute finanziaria dello Ior: un documento di venticinque pagine rimasto top secret. La relazione si rivela una miniera d'informazioni. Fornisce dati inediti sulle dimensioni dell'istituto di credito meno conosciuto al mondo. La banca del papa distribuisce alla clientela interessi sui conti per 230 miliardi di lire. Un anno positivo anche perché «i tassi d'interesse si sono abbassati molto ed è cresciuto il valore del nostro portafoglio», come Caloia sottolinea a Sodano in una lettera del 15 marzo 1994. Tornando invece al documento dei revisori, si scopre che l'Istituto conta su un autentico «tesoro». Custodisce infatti in cassaforte lingotti d'oro per una tonnellata e 617 chili, bond per 2666 miliardi di lire (1,9 miliardi di euro) e azioni per 91 miliardi, sia conservati in Vaticano sia accreditati sui conti correnti aperti in 141 banche presenti in tutto il mondo. Lo Ior conta partecipazioni conosciute, come quelle nell'allora Ambroveneto (diventato poi Banca Intesa), e altre meno note, come la Gestioni finanziarie e patrimoniali S.p.A. e la statunitense Fiduciary Investment Company del New Jersey per 17,9 miliardi. Solida anche la quota in immobiliari per altri 30 miliardi di lire.