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I soldi del papa e lo Ior dopo de Bonis Il fondo segreto del papa Secondo la Legge fondamentale, introdotta da Giovanni Paolo II, «il sommo pontefice, sovrano dello Stato Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario».1 Il papa è quindi il capo supremo della Chiesa con poteri illimitati su beni e parrocchie. Da San Pietro all'ultimo sperduto monastero sulla cima di una montagna, tutto rientra sotto il suo controllo. Il santo padre governa così un regno che si estende ben oltre i confini della Città del Vaticano. Conta oltre quattro milioni di fedelissimi con ruoli operativi tra vescovi (4500), preti (405mila), religiosi e religiose (865mila), diaconi permanenti (26.600), laici missionari (oltre 80mila) e 2 milioni e mezzo di catechisti.2 Si è sempre ritenuto questa teocrazia solo formalmente una monarchia assoluta di tipo elettivo, indicando nel papa, in realtà, non già il monarca ma la guida spirituale del miliardo di cattolici che vivono sul pianeta, più del 17 per cento della popolazione mondiale. Un sommo pontefice estraneo quindi all'umana gestione del denaro, alle terrene preoccupazioni finanziarie. In realtà, Giovanni Paolo II segue le più delicate vicende che agitano la segreteria di Stato, dicastero chiave nell'organigramma vaticano e braccio operativo del santo padre. S'interessa alle inchieste che turbano i segreti dello Ior, come si è visto grazie ai report inviati negli anni Novanta da Caloia al segretario di Wojtyla, Stanislao Dzi-wisz, sulle vicende Enimont e sullo Ior parallelo, creatura di monsignor Donato de Bonis. Riceve quindi i dossier più riservati sui casi critici e indica le linee generali da seguire alla segreteria di Stato. Gestisce poi in prima persona un'enorme quantità di denaro sui finanziamenti alla Polonia di Solidar-nosc. Denaro che costituisce il fondo personale del sommo pontefice e che proprio essendo di sua esclusiva competenza sfugge ai bilanci ufficiali che la Santa Sede diffonde ogni anno. Il fondo personale e riservato del papa rappresenta uno dei tanti segreti sulle finanze della Chiesa cattolica. E noto che il papa disponga direttamente di somme per opere di bene e carità. Ma sulla provenienza e sulla capienza di questo fondo si è sempre favoleggiato. Non si è mai avuta conferma della sua operatività né sono trapelate indicazioni sull'origine degli importi e sulla contabilità. Questo per un motivo fondamentale che ritroviamo alla base di tante scelte della Chiesa. Esiste tuttora un imbarazzo profondo per il denaro o, meglio, non si vuole far sapere come lo si riceve e come lo si spende. Il Vaticano non ama pubblicizzare la rete di società che utilizza nei settori più disparati, dal turismo religioso all'assistenza a malati e anziani, non indica i propri conti, si guarda bene dal far sapere voce per voce, diocesi per diocesi, quanto incassa nel mondo per beneficenza attraverso offerte, eredità, lasciti o legati. Per questo rende pubblici, in una tradizionale conferenza stampa di primavera, solo i bilanci di sette amministrazioni che fanno capo alla Santa Sede,3 ma si astiene dal rendere pubblici altri documenti assai più interessanti. La Chiesa non ama i bilanci universali e frantuma i rendiconti delle proprie economie tra diocesi, conferenze episcopali e parziali risultati di alcune amministrazioni dello Stato pontifìcio. Informa cioè a metà, offrendo dati a macchia di leopardo: zone note e buchi neri. Il Vaticano si dilunga e non tralascia una virgola sulle spese della propria tipografìa, sugli incassi ottenuti dalla vendita dei biglietti dei musei ma nulla trapela, per esempio, sugli utili della propria banca. Si sofferma su quanto costa la carta dei francobolli per le celebrazioni, ma non fa sapere quanta carta filigranata possiede nei caveau dello Ior «che non fa capo alla pubblica amministrazione dello Stato pontifìcio ma direttamente al papa».4 «Noi dipendiamo direttamente dal santo padre - spiega Caloia nel 1998 - al quale versiamo ogni anno gli utili.»5 Così all'appello mancano sempre tanti, troppi bilanci. I più importanti, come quello del Governatorato, ovvero dell'amministrazione della Città del Vaticano, quello dello Ior, quelli di tutte le società riconducibili al mondo della Romana Chiesa e utilizzate, per esempio, nel turismo religioso, nell'amministrazione immobiliare e nella gestione delle partecipazioni finanziarie. Se esistesse un immaginario libro contabile della Chiesa cattolica, avrebbe molte pagine bianche: quelle sul fondo personale del papa come quelle su attivi e passivi delle parrocchie e degli ordini. Essendo il Vaticano l'unico Stato al mondo, insieme al Bru-nei, che ha un Parlamento nominato dal sovrano, non è possibile compiere analogie. Si può tuttavia immaginare cosa accadrebbe se il governo italiano non rendesse accessibile ai suoi cittadini il bilancio completo dello Stato, omettendo di dire quanto costano il Quirinale e i palazzi della politica, o celasse i bilanci dell'Eni, di Finmeccanica e delle altre importanti società partecipate dallo Stato. Invece, in Italia, si «pretende» dalla politica e si «spera» dalle autorità ecclesiastiche. Questo sebbene la Chiesa cattolica, secondo i calcoli più recenti compiuti dal matematico Piergiorgio Odifreddi, arrivi a costare agli italiani 9 miliardi di euro ogni anno.6 Ma come mai alcuni bilanci vengono taciuti e quali? La risposta si trova ancora una volta nell'imponente archivio Dardozzi che conserva documenti che accendono un faro sulle contabilità più nascoste, consentendo di capirne di più sia sui bilanci sia sui silenzi che le circondano. Per averne un'idea, bisogna compiere un passo indietro e tornare al bilancio del 1993, presentato alla stampa internazionale a metà giugno del 1994. L'incontro è quello delle grandi occasioni, i dati vengono diffusi in pompa magna. Un clima d'ottimismo e disponibilità assai diverso dai toni sommessi delle trame e degli intrighi finora descritti. In particolare, una novità proietta il bilancio della Santa Sede sui giornali e le televisioni di tutto il mondo: il Vaticano esce dal deficit dopo un lungo periodo di crisi. Insomma, per la prima volta dopo ventitré anni «il papa non è più in rosso», si è infatti compiuto un autentico «Miracolo, la Chiesa è in attivo», come titolano due grandi quotidiani italiani.7 L'avanzo è di 2,4 miliardi di lire; i conti sono in salute: 263,4 miliardi di costi contro 265,8 miliardi di entrate per le sette amministrazioni che formano il bilancio. Spicca il settore immobiliare, con un attivo di 90,4 miliardi, e la gestione titoli, per altri 21,8 miliardi. Non bisogna poi dimenticare, ricordano le cronache, i 5,8 miliardi che arrivano dal Governatorato e l'Obolo di san Pietro, ovvero le offerte raccolte in tutte le chiese cattoliche del mondo il 29 giugno, festa di Pietro e Paolo, e che nel 1993 garantiscono altri 94,4 miliardi di lire. All'avanzo di 2,4 miliardi bisogna quindi aggiungere i 5,8 miliardi dal Governatorato. E un successo dovuto alla gestione di cura dei conti imposta dai cardinali Castillo Lara ed Edmund Casimir Szoka, già arcivescovo di Detroit e ora presidente della prefettura per gli Affari economici, in pratica il ministero delle Finanze della Santa Sede. Aria nuova rispetto al passato quando, per esempio nel 1991, il bilancio si era chiuso con un disavanzo di 100,7 miliardi. Tuttavia questi rendiconti presentano alcune lacune. Dei dati disaggregati del Governatorato non si trova traccia. Di quelli dello Ior neanche. Eppure Caloia ha rivoluzionato la gestione della banca, perché quindi non rendere pubblici anche quei bilanci? «Lo Ior non fa parte della Santa Sede risponde ai giornalisti curiosi un piccato cardinale Szoka -, è in Vaticano ma vi sono depositati soldi oltre che di ordini religiosi anche di proprietà non ecclesiastica e quindi ha bilanci propri.»8 La frase è in evidente contraddizione con quanto sostenuto finora. Innanzitutto perché lo Ior è «parte» della Chiesa, infatti è stato fondato con un chirografo di papa Pio XII; inoltre chi ci lavora è un dipendente di un ente centrale dal Vaticano, condizione introdotta dal Concordato e che, anni prima, ha permesso a Marcinkus di evitare l'arresto per il crac Ambrosiano. Ma poi, che fine fanno gli utili della banca se non rimangono nei forzieri dei sacri palazzi? La verità è semplice: il bilancio dello Ior garantisce utili cospicui, un fondo che finisce nella disponibilità diretta del pontefice in persona. Quell'anno poi il risultato è significativo, anzi straordinario. Forse per questo deve rimanere segreto. Nell'archivio Dardozzi è infatti custodito un documento prezioso, la lettera che tre mesi prima, il 16 marzo 1994, il presidente della banca Angelo Caloia scrive direttamente a Giovanni Paolo II per comunicargli l'enorme tesoro che lo Ior gli mette a disposizione: Beatissimo Padre, sento il dovere di mettere direttamente al corrente Vostra Santità dell'importo che l'Istituto per le opere di religione è in grado di mettere a disposizione della Santità Vostra. L'importo è pari a 72,5 miliardi di lire italiane, risultanti dopo l'accantonamento di oltre 170 miliardi a fronte di rischi di varia natura. La somma a disposizione di Vostra Santità rappresenta l'esatta differenza fra il totale di rendite e ricavi (pari a 496.902.373.094 lire italiane) ed il totale di spese e perdite (424.401.030.709 lire italiane). Tale risultato è il frutto di un ampio e trasparente lavoro di riordino procedurale e amministrativo condotto per quasi cinque anni di attività. A nome del Consiglio di sovrintendenza desidero presentare i più devoti e filiali ossequi, chiedendo la benedizione di Vostra Santità sul nostro lavoro, benedizione che oserei chiedere in un'udienza di cui Ella potrà stabilire i tempi e i momenti.