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Quell'italoamericano legato alla Casa Bianca Dardozzi è in fibrillazione. Dispone dei controlli anche sull'avvocato Pappalardo, a iniziare dai numeri di telefono lasciati come recapito. L'esito è sorprendente. Si tratta di numeri della Camera dei deputati. La storia sembra destinata a complicarsi. Sarà poi vero che questo civilista indica e utilizza un'utenza del Parlamento? «Non esiste tra i dipendenti della Camera - si legge in un'altra nota dell'archivio del monsignore -. Non esiste tra i nominativi di quelli che lavorano nelle segreterie politiche né stipendiati dagli onorevoli né stipendiati in tutto o in parte dalla Camera.» Quindi? «Mah, andava spesso alla Camera - ricorda oggi la moglie Marina, vedova dell'avvocato deceduto nel 2002 - collaborava con alcuni parlamentari ma non mi diceva nulla del suo lavoro.» Tra l'altro, almeno in quel periodo,7 il numero d'interno al quale Pappalardo risponde direttamente non corrisponde a un telefono qualsiasi: «Il numero telefonico 06.67602147 - si legge in un altro appunto - è intestato alla signora Giovanna Marinelli che fa parte dell'ufficio Presidenza (Pivetti)». Che si tratta di un ricatto lo si capisce agli inizi di dicembre, quando, in un appunto, Dardozzi scrive: «Carnevale avvicina Caloia e si parla di "Fondazione Gerini" e di Silvera. Il Silvera dice che con 100 miliardi si chiuderebbe tutto. Un ricatto!». Il 6 dicembre 1995 Scaletti e Dardozzi rincontrano Pappalardo. Visti i temi da trattare, preferiscono non esporsi facendosi vedere in Vaticano o in qualche ufficio Oltretevere. Questa volta l'appuntamento è fissato alle 10.30 al bar dell'hotel Plaza di via del Corso a Roma. In abiti borghesi per confondersi meglio tra manager e clienti dell'hotel. La riunione non dura molto. Pappalardo conferma quanto già ipotizzato sui tesori sudamericani. E accenna a un interesse personale, lamentandosi della parcella di alcune decine di miliardi mai pagata dai salesiani sebbene avessero ottenuto il nulla osta del ministero degli Interni affinché l'eredità potesse essere accettata dalla fondazione.8 Dardozzi rientra in Vaticano. Alle 16 con Scaletti raggiunge il cardinale Achille Silvestrini, prefetto della Congregazione delle Chiese orientali, per confrontarsi sulla vicenda. L'incontro top secret dura appena mezz'ora. Subito dopo Dardozzi telefona al penalista di fiducia, l'avvocato Franzo Grande Stevens, per trovare la via d'uscita evitando un pericoloso stallo. L'ombra dell'Ambrosiano incombe. La vicenda mette in allarme la Santa Sede. Dardozzi si consulta con le più alte cari che. Informa il segretario di Stato Sodano, che tra l'altro nel passato era stato destinato alla nunziatura apostolica in Uruguay. Coinvolge chiunque possa dare un contributo a iniziare dall'avvocato Spreafico, l'altro liquidatore dell'Ambrosiano, per ottenere lumi su possibili somme ancora custodite a Montevideo e finora sfuggite alle ricerche. In quelle settimane in molti, politici e porporati, sollecitano la gerarchia vaticana e dello Ior affinché sia data massima considerazione alle ambasciate di Pappalardo. E per esempio il caso di Pio Laghi, creato cardinale da Wojtyla nel 1991 e dal 1993 patrono dell'Ordine di Malta. In un appunto conservato da Dardozzi, Laghi sembra ritagliarsi un ruolo nella vicenda. Segnala Pappalardo e accredita anche altri soggetti9 da contattare dimostrando, al tempo stesso e ancora una volta, come sia sempre Dardozzi a coordinare la raccolta di informazioni per gestire le vicende più delicate. Dopo settimane di riflessioni, consultazioni e raccolta informazioni, il monsignore matura la convinzione che si tratta di una trappola. Non bisogna inseguire tesori. Se saltassero fuori somme riferibili al capitolo Ior/Ambrosiano, si rischierebbe infatti di dover ridiscutere finanziariamente l'accordo siglato nel 1984 con lo Stato italiano per chiudere la vicenda della banca di Calvi, dissotterrando storie che è meglio per tutti tenere sepolte. Del resto, non è la prima volta che si parla di un tesoro custodito in una banca di Montevideo. Già negli anni della Commissione bilaterale sul crac della banca di Calvi e ancora nel 1992, Dardozzi è stato avvicinato dall'avvocato italoameri-cano Fred M. Dellorfano di Boston che avrebbe a che fare con tale «Luigi Gelli», figlio del faccendiere capo della loggia P2 Licio Gelli. Questo stando ai ricordi del monsignore confidati in una lettera a Sodano: «Dellorfano aveva ricevuto l'incarico da Luigi Gelli di ritirare in Vaticano un passaporto diplomatico per lo stesso avvocato; passaporto che era stato assicurato a Luigi Gelli».10 Dellorfano ha anche indicato a Dar dozzi le persone che a suo dire dovrebbe contattare per recuperare la somma. E necessario innanzitutto sentire, negli Usa, Frank Onorati, amico di Sindona a New York, e a Washington William Rogers, segretario di Stato della presidenza Nixon negli anni Settanta: «Onorati gave papers - scriveva Dellorfano in un equivoco appunto consegnato a Dardozzi - to Rogers after Sindona died (1986). Letters from Roger to Onorati, Aug. 1 1986- May 6, 1988». Dellorfano sostiene quindi che per individuare la somma in Uruguay esisterebbero addirittura, rivelandosi utili, delle lettere tra Onorati e Rogers. Bisognava quindi avvicinare tale Nicholas Senn dell'Union Bank of Swit-zerland per conoscere i dettagli bancari.11 Ma di certo non basta. All'epoca il monsignore preferisce non assumere posizione su quella che può rivelarsi una pista preziosa o un ennesimo tentativo per sollevare polveroni, avanzare ricatti o inquinare la ricerca. Consegna quindi l'appunto all'allora segretario di Stato Casaroli e non ne sa più nulla. Dardozzi ritiene comunque che solo Sodano e il suo unico superiore, il papa, possano decidere cosa fare. Così, il 19 febbraio 1996, spedisce al segretario di Stato una dettagliata relazione sulla vicenda con la sua proposta: «Il ripetuto riferimento a Montevideo porta a pensare che vi sia nella "vicenda" qualcosa di vero ma - a mio modesto avviso - non conviene avere a che fare. Si correrebbe il rischio di ridiscutere l'accordo Ior/Italia [...]».12 Caloia è sostanzialmente d'accordo. Meglio non avventurarsi in una situazione che appare obiettivamente scivolosa. Così i contatti con Pappalardo si diradano, anzi i salesiani di Don Bosco rispediscono al mittente la parcella da 35 miliardi. Il civilista cerca altri canali ma tutte le strade sembrano sbarrate. Di quei soldi nemmeno un centesimo. Il legale non si perde d'animo e nell'inverno del 1997 fa intervenire l'Ordine di Savona. Da una parte le Opere di Don Bosco, i salesiani, difesi da un altro avvocato, l'allora senatore dell'Ulivo Nanni Russo, fratello dell'ex ministro democristiano Carlo, dall'altra Pappalardo. I colleghi dell'Ordine danno ragione a quest'ultimo ridimensionando l'onorario a «soli» 26 miliardi. Dell'esistenza della «pista Montevideo» ovviamente nulla trapela sui media. Si parla solo dell'eredità da assegnare alla fondazione o ai nipoti del marchese. La storia del tesoro in Uruguay, degli ultimi forzieri di Calvi, viene come dimenticata. Almeno fino a oggi. Se la scelta di Dardozzi e Caloia si rivela azzeccata è perché i due, in realtà, da tempo hanno monitorato la complessa «questione Gerini» e i rapporti dello Ior con la fondazione. Il primo campanello d'allarme è rappresentato infatti da un prestito di 16,3 miliardi erogato alla fondazione agli inizi degli anni Novanta dalla banca del papa. Alla fondazione è stato sufficiente indicare genericamente a garanzia i beni che avrebbe ricevuto, chissà quando, dal lascito Gerini. Senza quindi alcun altro documento, né verbale assembleare a sostegno della richiesta. Sul conto 90970 della «Fondazione Gerini» il 31 luglio 1990 vengono accreditati 2,3 miliardi di prestito al 14 per cento d'interesse, poi a dicembre altri 14 miliardi al 12 per cento. Che si tratti di un «prestito» e anche «dubbio», mancando tutta la documentazione, lo si capisce da quanto accade poco dopo. Essendo questo erogato senza le consuete garanzie, lo Ior incontra enormi difficoltà per recuperarne la somma. La banca vaticana studia un piano di rientro che sottopone al Consiglio di sovrintendenza.1