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Enimont. Il depistaggio Documenti passati sottobanco Se la rogatoria ancora deve arrivare oltre il Portone di Bronzo, nei sacri palazzi di certo non perdono tempo. Più documenti e appunti custoditi nell'archivio Dardozzi fanno pensare che una copia informale della richiesta dei pm milanesi fosse già a disposizione delle autorità ecclesiastiche almeno due settimane prima che il documento ufficiale arrivasse per via diplomatica, il 6 novembre 1993. È quanto si deduce, in particolare, dal puntuale diario personale che Dardozzi aggiornava continuamente: Oggi 23 ottobre 1993 alle ore 10.15 il cardinale Sodano mi chiede chiarimenti sulle procedure. Mi dice che la richiesta la manderanno al Tribunale vaticano il quale esaminerà e prenderà (probabilmente) contatto con i responsabili per le informazioni del caso. Ho risposto che il documento in via informale e segreta è nelle mani dell'avvocato Franzo e che è stato disposto (sempre in via informale) per tutti i più precisi accertamenti da eseguire attraverso una sola e ben identificata persona. In modo che non si «determinino fughe». Ma c'è di più. Altri due elementi fanno presupporre che il «documento in via informale» già in mano al penalista Grande Stevens sia proprio la rogatoria. Innanzitutto un fax che l'avvocato torinese manda sempre il 23 ottobre mezz'ora dopo l'incontro tra Dardozzi e Sodano. Nel fax si fa riferimento a tutte le contestazioni su Enimont con dati e cifre contenute nella rogatoria e ancora non pubblicate dai giornali. Il penalista fornisce queste informazioni, ancora riservate, per predisporre una prima bozza di risposta alla rogatoria. Non solo. Sempre nell'archivio del monsignore esistono due copie della rogatoria che pagina per pagina si distinguono per una clamorosa differenza. La prima copia, infatti, è quella ufficiale con tutti i fogli della Procura di Milano marcati dal timbro del Vaticano all'atto del protocollo. La seconda è identica, solo che il documento è privo dei timbri. Significa che questa copia è stata approntata prima che l'atto arrivasse a piazza san Pietro. Sebbene non si abbia prova certa che ciò sia veramente accaduto, che cioè qualcuno in Tribunale o al ministero della Giustizia abbia passato la rogatoria brevi manu settimane prima della formale notifica, quanto raccolto da Dardozzi va tuttavia in questa direzione. Significherebbe che qualcuno ha violato il segreto istruttorio informando prima non il Tribunale vaticano, ovvero il naturale interlocutore della Procura di Milano, ma l'autorità politica della Santa Sede, il soggetto passivo della rogatoria, il testimone che doveva spiegare il passaggio dei Cct di Enimont. La violazione diventa ancor più palese se si considera che il ministro della Giustizia italiano, Giovanni Conso, avrebbe anche potuto bocciare la rogatoria rispedendola al Pool. La vera maxitangente Enimont Il 6 novembre 1993 arriva ufficialmente la rogatoria; Sodano allerta tutti i membri della Commissione cardinalizia, a iniziare dall'ex segretario Agostino Casaroli, avvisandoli di aver già sollecitato Caloia a «fornire - scrive Sodano - appena possibile le necessarie informazioni agli eminentissimi membri della Commissione cardinalizia di vigilanza».1 Il presidente dello Ior non si tira indietro. Finalmente è autorizzato a divulgare, con discrezione, quanto emerso sullo Ior parallelo. Fa circolare i risultati delle ultime verifiche nei forzieri vaticani evidenziando i punti di criticità. Si sofferma infatti su alcuni aspetti che almeno per il momento sfuggono ai magistrati. Questioni gravi che se conosciute dalla Procura potrebbero determinare reazioni a catena, nuove inchieste. La situazione si presenta infatti ben più complessa di quanto verificato dagli inquirenti di Borrelli. Le più alte autorità della Santa Sede hanno così di fronte tutto il potenziale dell'inchiesta milanese. Ora non si tratta più di decidere solamente se rispondere o meno ai quesiti posti per rogatoria. E scontato proseguire nella «collaborazione» annunciata. Siamo di fronte ad accuse circostanziate, in un periodo storico di massimo consenso popolare verso l'azione di Mani pulite. Bisogna scegliere con cautela quanto far conoscere agli inquirenti, in modo da proteggere altri segreti ancor più inconfessabili. Segreti sulle somme reali transitate nella banca del pontefice e sui beneficiari. Dalle scritture contabili, riassunte nei report di quei giorni mandati da Caloia e monsignor Dardozzi a Sodano, emerge che allo Ior si sarebbero verificati casi di autentico «riciclaggio». Il termine proibito è ora coraggiosamente indicato e ammesso nei carteggi riservati: Le ricognizioni interne permettono di ricondurre alla persona di Donato de Bonis, direttamente o indirettamente, una vasta movimentazione di titoli e contanti effettuata in modo più intenso negli anni dal 1990 al 1993 con la finalità sostanziale, non sappiamo se intenzionale oppure soltanto subita, di trovare riservata dimora a mezzi finanziari o, in qualche caso, di riciclarli avvalendosi dello schermo offerto da una istituzione finanziaria non residente in Italia quale è lo Ior. I titoli sono entrati nell'Istituto per essere o immessi in depositi valori, a custodia, o venduti allo Ior, o inviati all'incasso a banche esterne con lo Ior usato come schermo per i titoli prossimi alla scadenza. In alcune occasioni de Bonis si è fatto consegnare titoli dopo averli acquistati con addebito sui riferimenti sopra citati (in particolare la «Fondazione Spellman» e il «Fondo di Jorio»), sui qua li aveva fatto accreditare il ricavato della vendita di altri titoli oppure il deposito di contante. Si sono pertanto verificati lo «scambio di titoli contro titoli» e lo «scambio di contante contro titoli», cioè casi di «lavaggio» di denaro.2