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Sono giorni in cui affari, sentimenti e mazzette si mescolano confondendo ruoli e destini. La corsa alla «lavanderia» di piazza san Pietro viene anche attraversata da momenti magici. Così, nell'estate del 1991, mentre de Bonis, Bisignani e Cusa-ni continuano nelle frenetiche triangolazioni finanziarie per pagare i politici, Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi convolano a nozze. Si sposano nella chiesa di sant'Anna, in Vaticano, a pochi passi dalla sede dello Ior. A celebrare il matrimonio, tra calle in fiore e delicate rose bianche, monsignor de Bonis. Nozze che saldano il legame tra la Santa Sede e i Ferruzzi rendendolo indissolubile: nell'occasione il santo padre riceve una donazione ufficiale da mezzo miliardo da parte di Sama per beneficenza e visita anche la redazione romana de «Il Messaggero », all'epoca giornale del gruppo di Ravenna. Il giro di denaro continua, sempre più vorticoso. La contabilità delle mazzette che transitano sul solo «Fondo san Serafino», gestito direttamente da de Bonis, risulta da tutte le contabili e gli estratti conto custoditi nell'archivio Dardozzi: de Bonis vende e deposita ricavi da titoli per 45 miliardi e dispone bonifici in banche svizzere per 44,8 miliardi. Agli importi bisogna aggiungere i prelievi in contanti sia di Sama, per 750 milioni, sia del monsignore, che accede liberamente al conto pur non potendo formalmente operare. Sul deposito «Jonas Foundation», invece, entrano 23 miliardi, dei quali quasi 10 ricavati dalla vendita di titoli. Solo in contanti Bisignani ne ritirerà 12,4 fra l'ottobre del 1991 e il giugno del 1993, con cedole firmate dal monsignore. A questi bisogna aggiungere altri 10 miliardi di lire trattati sul conto diretto del costruttore Bonifaci. Silenzio, si ricicla Allo Ior nessuno pare accorgersi di nulla. Per contabilizzare le operazioni il prelato utilizza funzionari e impiegati ormai assuefatti al suo modo di agire. Tre in particolare: Antonio Chiminello, Carlini e Pietro Ciocci, vicecapo del dipartimento di sicurezza. Che non chiedono delucidazioni. Non informano i capiuffìcio. Seguono senza fiatare le indicazioni di de Bonis. «Ricevono istruzioni dal direttore centrale Giovanni Bodio di registrare operazioni ammantate di maggior credibilità per il fatto di essere fatte dal prelato dell'Istituto», come lo stesso Dardozzi tratteggia in un report riservato destinato alla gerarchia vaticana.7 Nessuno fa domande. Nemmeno lo stesso Bodio, che da oltre un anno ha preso il posto del gentiluomo di sua santità, Luigi Mennini, fido di Marcinkus. Bodio è il braccio destro del presidente Caloia, scelto proprio da quest'ultimo per chiudere la stagione degli scandali targati Ambrosiano, dopo un'esperienza comune al Mediocredito centrale. Avrebbe dovuto insospettirsi, allertato dalle vicende appena trascorse e dai suggerimenti di Caloia. Eppure non dice nulla. Sul suo atteggiamento arrivano testimonianze controverse. Una è quella sostenuta nel tempo dal suo mentore, ovvero l'attuale presidente dello Ior Caloia: «Bodio? Bastava che una tonaca con la bottoniera rossa lo invitasse a colazione perché consentisse a un investimento. Rimase affascinato da monsignor de Bonis, che di carisma ne aveva da vendere».8 Insomma, Caloia cerca di imboccare l'unica via di fuga percorribile: far passare Bodio per un bancario condizionabile, confessando un clamoroso errore di valutazione nell'averlo voluto come stretto collaboratore. Difficile tuttavia sostenere che la direzione generale dello Ior possa essere stata affidata a un ingenuo insciente e che Caloia si sia scelto un numero due privo di carattere per avviare una delicata opera di risanamento. Il paravento delle fondazioni e delle opere di bene poteva ingannare un neodirettore desideroso di guadagnare consensi tra le lunghe tonache, aumentando la raccolta dell'Istituto. Benché nessuna delle posizioni intestatarie dei conti, si legge nelle analisi e nei report raccolti nell'archivio Dardozzi, presenti «un substrato giuridico tale da configurare una fondazione né in senso stretto né in altri sensi».9 Questo ragionamento assolutorio su Bodio tuttavia non regge a causa di un tallone d'Achille insuperabile. Bodio è colui che accetta i fondi dei Ferruzzi, di Bisignani - i funzionari eseguono decine di transazioni tra Lussemburgo e Svizzera - senza coinvolgere, come invece avrebbe dovuto, il Consiglio di sovrintendenza, il Cda presieduto da Caloia. Se il direttore generale fosse stato mosso da nobili intenti professionali di far crescere la banca, se si stava muovendo per il bene dello Ior, perché non avvertire i superiori, coinvolgerli nei successi come tra l'altro richiesto dai regolamenti? Invece, silenzio. Nemmeno l'insolita e inquietante massa di soldi in contanti che entra ed esce in quegli anni fa sorgere dubbi nel torrione Niccolò V. E quando nell'autunno del '92 le relazioni della Commissione segreta si fanno più approfondite e incalzanti, il direttore ribadisce la sua versione e avvalora l'errata e depistante finalizzazione caritativa delle fondazioni del sistema de Bonis, pregiudicando così senza speranza il suo futuro. Ai colleghi racconta che per lo Ior i Ferruzzi erano la gallina dalle uova d'oro, che Sama e Cusani gli avevano assicurato di voler portare in banca capitali per 400 miliardi. Dall'altra parte, le verifiche avviate stringono le maglie su a-nomalie e appropriazioni indebite come quelle delle Sante Messe e di alcuni bonifici sospetti. Ma il lavoro della Commissione segreta non si rivela facile. Caloia non si fida e taglia fuori l'intero Consiglio di sovrintendenza, riferendo solo al segretario di Stato Sodano e a pochissimi cardinali. Dall'Italia, intanto, a settembre del 1992 arrivano i primi segnali dello tsunami giudiziario. Giuseppe Garofano, presidente di Montedison, viene sentito per 200 milioni girati all'allora segretario della Dc milanese Gianstefano Frigerio. Qualche mese dopo, Sama sostituisce Garofano al vertice del gruppo. Passo dopo passo, Mani pulite si avvicina agli amici del prelato dello Ior. La ricerca interna fa emergere nuovi depositi, sempre gestiti da de Bonis, che vengono via via indicati nelle relazioni raccolte da Dardoz-zi sulle attività dello Ior parallelo. E una lotta contro il tempo. La segreteria di Stato è ancora lontana dalla verità delle tangenti Enimont, ma a mano a mano che affluiscono i dati della Commissione, le movimentazioni assumono rilievo sempre più allarmante e sospetto. Sodano, sollecitato da Caloia, è sempre più diffidente nei confronti di de Bonis. Il monsignore si sente franare il terreno sotto i piedi: la cometa inizia a spegnersi. Il prelato comprende che ormai è solo questione di tempo. Così, nel dicembre del 1992, su pressione proprio di Caloia, Sodano dà il nulla osta per rimpiazzare Bodio alla scadenza del mandato, rispedendolo in Lombardia. Al suo posto, sostenuto dal cardinale José Rosalio Castillo Lara, presidente del Comitato cardinalizio di controllo dello Ior e nome che ritroveremo sempre più spesso, arriva Andrea Gibellini, che ha appena ricoperto lo stesso ruolo al Credito Varesino. De Bonis si profonde in elogi, gratifiche e apprezzamenti. Stringe con lui immediata amicizia. La prima mossa del monsignore è indiscutibilmente astuta, brillante: Gibellini e de Bonis condividono lo stesso segretario personale, si dividono le premure di Natalino Aragona, ombra del prelato e suo fidatissimo collaboratore. Ogni respiro del neodirettore viene quindi avvertito, ogni mossa intercettata e studiata. Aragona segue Gibellini passo dopo passo. Il presidente dello Ior Caloia è tagliato fuori: Gibellini obbedisce a ogni desiderio dei porporati, è «captive di de Bonis», scrive Caloia nella corrispondenza con Sodano.