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De Bonis, manovale di Dio Ma torniamo a Marcinkus. Il suo sistema di potere, di affari e alleanze deve continuare e sopravvivere a qualsiasi maremoto, per operare nella discrezione più assoluta. E per questo che già nella primavera del 1987, quando si alza l'offensiva giudiziaria e Marcinkus rischia l'arresto con Mennini e il ragioniere capo dello Ior de Strobel, il presidente della banca vaticana architetta la successione e individua l'erede che ne modulerà gli insegnamenti secondo le necessità degli anni Novanta. La scelta cade sull'unico candidato valutabile: monsignor Donato de Bonis, allo Ior dal 1954, segretario particolare dell'ex presidente, il cardinale Alberto di Jorio, quindi segretario generale della banca dal 1970: il numero due. Da diciassette anni de Bonis segue infatti passo dopo passo le operazioni di Marcinkus. Sono loro i padroni della banca. Non è dato sapere se la morbida fuoriuscita trattata da Marcinkus con i più alti porporati contemplasse la permanenza di de Bonis nella banca vaticana. Di certo Marcinkus rimane entro le mura sino al 1997, coltivando le sue relazioni, mentre monsignor de Bonis rifiuta sia il vescovado della sua Potenza sia la carica di ausiliare nella diocesi di Napoli pur di restare allo Ior. Così nel 1989 Casaroli, forse su indicazione diretta di Giovanni Paolo II, all'interno del nuovo organigramma, ritaglia per monsignor de Bonis un'inaspettata e gratificante funzione: prelato dello Ior. La figura di presidente viene ora sostituita dal Consiglio di sovrintendenza, in pratica un Consiglio d'amministrazione, che dal giugno del 1989 sarà presieduto dal banchiere laico lombardo Angelo Caloia. Una scelta che rappresenta una rottura con il passato, sostenuta anche da monsignor Renato Dardozzi, che raggiungerà Caloia sotto la Madonnina per proporgli la presidenza della banca vaticana. Amico personale di Bazoli e del cardinale Carlo Maria Martini di Milano, assai vicino al gruppo del democristiano Vittorino Colombo, Caloia è l'espressione più nitida della finanza bianca del Nord. In questo gioco di equilibri e spartizioni, de Bonis diventa appunto prelato, ovvero la cerniera tra la banca e i cinque cardinali della Commissione di controllo che riferisce direttamente al papa.3 Ma de Bonis è soprattutto la memoria storica dello Ior, fine conoscitore delle debolezze di ogni dipendente, dei segreti di ogni operazione eseguita e soprattutto dei tempi e controtempi della finanza vaticana. E natio di Pietragalla, uno dei paesi più poveri della Basilicata, che lascia a dieci anni per entrare in seminario. Il giornalista Giancarlo Zizola lo magnifica così dalle colonne del settimanale «Panorama» nel 1989: De Bonis è nato nel 1930; sua madre, napoletana, faceva la maestra di scuola, suo padre il direttore di banca. Spirito evangelico e professionismo manageriale s'intrecciano in questa famiglia cattolica di sette figli (una è terziaria francescana, due hanno scelto la carriera in banca). A dieci anni Donato entra nel seminario di Potenza, fra le cui mura vive un'adolescenza segnata dagli stenti della guerra. Frequenta il liceo al seminario regionale di Salerno. Nel 1953 è ordinato vicario di Roma, a san Giovanni in Laterano, da Clemente Mica-ra. L'anno dopo entra nella stanza dei bottoni del Vaticano, allo Ior, rincorrendo il sogno familiare di ricomporre l'uso del denaro e l'utopia francescana. Il suo patrono è il cardinale di Jorio, presidente dello Ior. Nel 1970 quando di Jorio va in pensione e Paul Marcinkus prende il suo posto a capo della banca, de Bonìs è nominato segretario generale. Una carriera fulminea velata di una discrezione assoluta: mai un ricevimento, sempre nell'ombra, nessun traffico con i Sindona, i Calvi e gli altri uomini d'oro dell'epoca. Il suo motto è un proverbio cinese: «Fa il bene e buttalo a mare. I pesci non sapranno chi lo ha buttato. Ma Dio lo sa». Nel suo ufficio un grave evangela-rio è sempre tenuto aperto sul leggio: «La Chiesa deve scegliere -dice - o sta con san Francesco o col business». L'idealismo di de Bonis, tuttavia, s'intreccia al pragmatismo e si misura sui grandi numeri: il suo orologio da polso ha due quadranti, uno con l'ora di Roma, l'altro con quella di New York.4 La storia dell'Ambrosiano in realtà va diversamente. De Bonis è un abile manipolatore. Pubblicamente cerca sempre di smarcarsi dal suo presidente Marcinkus, ma solo apparentemente. In realtà ne è l'ombra fedele in ogni affare. Con lui studia la vendita del 51 per cento della partecipazione dello Ior nel Banco di Roma Suisse, che viene ceduta per 100 milioni di dollari alla Union de Banques Suisses (Ubs), quasi 160 miliardi dell'epoca. Qualche anno dopo, sempre con la sua regia, lo Ior esce sia dall'Italmobiliare della famiglia Pesenti, cedendo l'1,7 per cento, sia dalla Banca del Gottardo, utilizzata da Calvi per smistare i denari dell'Ambrosiano. Nel 1984, sempre con il presidente dello Ior, firma l'assegno per chiudere il contenzioso con i liquidatori dell'Ambrosiano. De Bonis sosterrà sempre la tesi di Marcinkus del raggiro di Calvi e Sindona a discapito del Vaticano. Tanto da abbandonare il low profile: «De Strobel e Marcinkus più che responsabili - giurava - sono vittime del crac dell'Ambrosiano»5 e critica apertamente i magistrati che indagano sull'Istituto di Calvi, accusandoli «di non voler scoprire i reali responsabili della bancarotta. Non vorremmo che le energie impiegate finora per guardare in direzione dello Ior fossero tolte alla ricerca dei veri responsabili».6 Al tempo stesso il prelato cerca di porsi come «fautore della moralizzazione», facendo filtrare sui giornali aneddoti sulla sua decantata trasparenza e saggezza. Con frasi epiche: «Ho i capelli bianchi fin da bambino, anzi, diciamolo, fin dalla nascita... Lavoro in silenzio [...] Io sono un manovale di Dio».7 O quel biglietto inviato nel 1981 all'amico e attore Eduardo De Filippo: Mi è stato chiesto: cosa faresti se san Francesco bussasse alla tua porta? Ho risposto: da quando ebbi l'uso della ragione consegnai al poverello di Assisi la chiave di casa mia. Da quel momento san Francesco non bussa alla mia porta: entra quando vuole.8 Ancora, alla giornalista spagnola Isabel Pisano: «I magistrati hanno riconosciuto la mia estraneità a tutti gli eventi in questione; io non avevo nulla a che fare con la gestione dello Ior. Lasciavo fare ai laici e, come vede, sono l'unico che si è salvato...».9 «Lo stile di de Bonis - ricorda oggi il giudice Otello Lupac-chini - è inconfondibile. Poche e misurate parole solo nei momenti più significativi della vicenda Ambrosiano. Un modo assai chiaro per eliminare ogni dubbio su quanto fosse influente e lanciare messaggi precisi. Anche perché in questi scandali vaticani contava tutto, la strategia politica, finanziaria, del dubbio, del ricatto e dell'inganno, tranne la fede.» In definitiva dai giornali il prelato auspica che «lo Ior torni a essere al servizio della Chiesa universale, dimenticando certi legami passati con la finanza laica internazionale».10 In realtà, la commistione prosegue. Tanto da vederlo coinvolto nel 1983, a causa di alcune raccomandazioni, in un filone dello scandalo dei petroli esploso già dieci anni prima: i giudici gli ritirano il passaporto, ma l'incidente viene presto dimenticato. Il passaggio di consegne tra Marcinkus e il prelato dello Ior è graduale e in stile sommesso, come si usa nei sacri palazzi. De Bonis getta le fondamenta della successione nei mesi più tesi della vita del suo superiore. È il 15 luglio 1987, momenti cruciali per lo scandalo del crac Ambrosiano. A breve la Cassazione deciderà se mandare in carcere il presidente dello Ior come chiedono i giudici di Milano che indagano sul dissesto dell'Istituto di Roberto Calvi, oppure cambiare strada, ritenendo questa non percorribile nel rispetto dei Patti Latera-nensi che garantiscono una sorta di «impunibilità» ai dirigenti della Santa Sede. Il presidente Marcinkus rischia quindi le manette. Alla vigilia della pronuncia, de Bonis inizia a tessere quella ragnatela che negli anni Novanta costituirà un sistema offshore per il riciclaggio di denaro entro le mura vaticane con conti criptati. Il primo passo segreto lo ritroviamo nell'archivio Dardozzi: de Bonis firma regolare richiesta e lo Ior apre il primo conto corrente del neonato sistema offshore. Conto n. 001-3-14774-C: primo deposito in contanti di 494.400.000 lire ed elevato tasso d'interesse garantito, il 9 per cento annuo. Come ogni tela di ragno deve risultare invisibile a chiunque si avvicini, così l'attività finanziaria di de Bonis dev'essere occulta, protetta dalla riservatezza più assoluta per garantire la potente clientela, evitare gli scandali appena alle spalle, assicurare lauti profitti. A suo modo lo dichiara lui stesso: «Abbiamo sofferto ma la lezione è servita. Certi errori non si devono ripetere».