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Ascesa e caduta di Marcinkus Una guardia del corpo molto particolare Negli anni Cinquanta inizia a percorrere i corridoi della Santa Sede un giovane sacerdote americano, trasferitosi a Roma per frequentare i corsi di diritto canonico all'Università gregoriana. E un uomo alto un metro e ottantasei, imponente, dal passo deciso. Viene da Cicero, violento sobborgo della Chicago di Al Capone, dov'è nato da genitori lituani immigrati nel 1922. Si chiama Paul Casimir Marcinkus e cresce nella periferia senza legge dove il mafioso aveva insediato il suo quartier generale. Viene ordinato sacerdote nel 1947. Dopo l'Università gregoriana, Marcinkus si trasferisce alla Pontifìcia accademia ecclesiastica, campus per i diplomatici della Santa Sede. Che sia un astro nascente lo si capisce subito. Ad appena trent'anni, nel 1952, già dispone di una scrivania presso la segreteria di Stato. Le voci sul suo ingresso lesto in Vaticano si rincorrono. C'è chi indica nell'allora segretario di Stato, il cardinale Giovanni Benelli, che lo volle subito come collaboratore, il suo mentore. C'è chi legge nelle raccomandazioni americane del giovane sacerdote la chiave che lo introdusse nelle stanze del potere di papa Pacelli (Pio XII), assai sensibile alle tesi anticomuniste del cardinale di New York Francis J. Spellman.1 Quest'ultima è la ricostruzione più accreditata e merita un approfondimento. In quegli anni di Guerra fredda, il potentissimo cardinale americano è infatti il regista dei rapporti tra Usa e Vaticano e ha modo di consolidare le sue rela zioni con gli uomini più influenti dei sacri palazzi, a iniziare dall'ingegnere Bernardino Nogara, l'uomo che aveva reso floride le casse vaticane gestendo i risarcimenti ottenuti dallo Stato italiano con i Patti Lateranensi del 1929.2 Nel novembre del 1958, alla morte dell'ingegnere, Spellman lo elogia senza remore: «Dopo Gesù Cristo la cosa più grande che è capitata alla Chiesa Cattolica è Bernardino Nogara». Probabilmente ha ragione. Secondo le stime dello storico inglese David Yallop, Nogara lascia un patrimonio finanziario pari a 500 milioni di dollari di gestione dell'amministrazione ordinaria dell'Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica), al quale sono da aggiungere i 940 milioni di dollari di patrimonio dello Ior che ne maturava 40 solo di interessi ogni anno. La Vaticano S.p.A. è ormai una realtà nel panorama finanziario mondiale.3 Con il biglietto da visita di Spellman in tasca, per Marcinkus si aprono molte porte. Non ha il piglio del prevosto. Fuma sigari cubani. Frequenta i salotti, i campi da golf, preferisce le palestre alle sacrestie. Ma ciò che qui più interessa è un incontro negli uffici della segreteria di Stato che andrà a cambiargli la vita, facendo poi precipitare le finanze vaticane. Factotum di Pio XII è infatti Giovanni Battista Montini, allora pro segretario del papa. Un bresciano tignoso. Seppur agli antipodi per stile e carattere rispetto all'imponente sacerdote americano, dopo un'iniziale avversione, stringerà con Marcinkus un'alleanza di ferro. Figlio di un banchiere, Giovanni Battista Montini diventa papa Paolo VI nel 1963, dopo la morte di Giovanni XXIII. Egli riporterà la finanza della Santa Sede, dopo un periodo di basso profilo, sui binari di una politica aggressiva e spregiudicata. Dettata subito dalle necessità. Francis Spellman4 fa la spola tra New York e Oltretevere. Appena Paolo VI si insedia, incontra il cardinale americano che pare abbia raccomandato affettuosamente Marcinkus.5 Poi un piccolo incidente nel 1964. Paolo VI è in visita nel centro di Roma, la folla straripa e quasi lo schiaccia. La prontezza di Marcinkus è fulminea. Sua santità viene portato in salvo dal robusto sacerdote. L'indomani è scelto come guardia del corpo. Diventa il responsabile della sicurezza del papa nei viaggi in tutto il mondo: dall'India alla Turchia, dal Portogallo agli Stati Uniti. Nel 1970, durante un viaggio nelle Filippine, Marcinkus blocca un pittore che si avventava sul pontefice con un pugnale.6 L'americano entra nella stanza dei bottoni. Stringe amicizia anche con il segretario personale del papa, padre Pasquale Macchi, che gode di un fortissimo ascendente sul santo padre. Tra i due l'intesa è immediata. Marcinkus sale i gradini in fretta. Diventa vescovo e viene scelto come segretario della banca vaticana (1971). Ha le idee chiare. Celebre la sua frase: «Si può vivere in questo mondo senza preoccuparsi del denaro? Non si può dirigere la Chiesa con le Avemaria». L'alleanza con Sindona La situazione è diffìcile. La morte di Giovanni XXIII ha fatto crollare le offerte dei fedeli da 19 a 5 miliardi di lire. Ma c'è di peggio. Con un estenuante braccio di ferro il governo italiano introduce la tassazione sui dividendi per la Santa Sede, dopo un quarto di secolo d'esenzione fiscale che Mussolini aveva garantito con la circolare del san Silvestro del 1942. Si annuncia una catastrofe finanziaria: alla fine degli anni Sessanta, secondo diverse stime,7 la Chiesa controlla dal 2 al 5 per cento del mercato azionario. Nel 1968, con Giovanni Leone presidente del Consiglio, cade così l'ultima resistenza e sulle casse del Vaticano pesa il pagamento di tutto il pregresso su investimenti per oltre un miliardo e 200mila euro attuali. Pur di sfuggire alla tenaglia fiscale che si stringe, Paolo VI affida il trasferimento all'estero delle partecipazioni a un sacerdote e a un laico, un siciliano affabile con solidi agganci negli Usa, già conosciuto da Montini quando era arcivescovo di Milano. Si chiama Michele Sindona.8 Porta i capitali della mafia. Il sacerdote che mastica di finanza ed è amico degli Usa si chiama Paul Marcinkus. E l'inizio della fine. I due diventano intimi. Si crea la ragnatela. Sindona avvicina lunghe tonache come monsignor Macchi, braccio destro del pontefice già dai tempi di Milano, ma anche blasonati manager come il principe Massimo Spada, e dirigenti dello Ior come Luigi Mennini e Pellegrino de Strobel. Seguendo dal Sancta Sanctorum dello Ior le operazioni più spregiudicate di questo gruppo di potere, muove i primi passi bancari un silenzioso giovane sacerdote lucano, assai prudente e discreto. Rimane affascinato dalle mosse finanziarie della cordata. Impara nell'ombra. Si chiama Donato de Bonis. Lo ritroveremo molto più tardi, negli anni Novanta, a gestire tangenti e i soldi di politici entro le mura leonine. Gli anni Sessanta segnano per Sindona la crescita smisurata e l'apice degli affari tra Usa, Vaticano e Italia. Consulente del boss italo-americano Joe Adonis, della famiglia di don Vito Genovese, il banchiere siciliano individua i canali per il riciclaggio della mafia, compra la banca svizzera Finbank, già del Vaticano, conquista la stampa americana grazie ai successi finanziari, entra in affari con David M. Kennedy, presidente della Continental Illinois Bank, che sarà ministro del Tesoro del governo Nixon. E si affilia alla loggia massonica più potente di quel periodo, la Propaganda Due di Licio Gelli, che incrocia in uno dei pochi incarichi societari del venerabile di Arezzo: direttore della Remington Rand in Toscana. Gelli è già accreditato in Vaticano, forte dei rapporti con Paolo VI, il vescovo Marcinkus e il cardinale Paolo Bertoli, capace di alimentare e soddisfare ogni ansia anticomunista in un gioco di potere che tiene banco in Italia per tutti gli anni Settanta. Se negli Usa iniziano a crescere i primi sospetti per riciclaggio e traffico di stupefacenti, in Italia Sindona è ancora solido tra protezioni indissolubili. Forte del mandato di Paolo VI per trasferire all'estero le partecipazioni societarie della banca vaticana, con Marcinkus controlla la più massiccia esportazione di capitali mai avvenuta sino ai caveau della Swiss Bank, in società con la Santa Sede. Tra i primi affari cede il controllo della Società generale immobiliare (Sgi), impresa con un patrimonio da un miliardo di dollari, dirottando la partecipazione in una finanziaria lussemburghese. E la prima di una serie infinita di alchimie finanziarie con i beni del Vaticano che passano di mano in mano per eludere il fìsco e lucrare su ogni partecipazione. Sino ai saccheggi come quello sui conti della Banca Unione, con Sindona che riesce ad alleggerire i depositi di 250 milioni di dollari trasferiti poi alla Amincor Bank di Zurigo. Fanno da cornice i cospicui «finanziamenti» alla Democrazia cristiana, come per la campagna contro il referendum per il divorzio. Così il finanziere siciliano utilizzava le finanziarie compartecipate dal Vaticano e i conti della Santa Sede presso la Banca Privata Italiana per trasferire i soldi della mafia. La simulazione è la sua arte. Riesce a essere definito, nel settembre del 1973, il «Salvatore della lira» da Giulio Andreotti, dopo esser stato proprio lui a speculare a danno della divisa italiana e a denunciare oscure manovre contro la valuta del suo paese.