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Prefazione C’era una volta…, un classico, le favole cominciano tutte così! Già, ma questa non è una favola, piuttosto un giallo, una indagine dove non ci sono cadaveri né assassini, ma tanti, forse troppi, misteri, qualcuno svelato, altri da svelare, altri ancora che nessun Sherlock Holmes riuscirebbe a risolvere. Dove nasce la cucina ligustica, chi ha dato, oltre alla fame, il “la” ad una serie di piatti che sono unici (eppure così simili ad altri di altre regioni), che usano gli stessi ingredienti che nascono lungo il Mediterraneo in maniera così personale? Saranno state le donne, belle e forti, di questa regione? Forse gli uomini, boscaioli, contadini, marinai, pochi pescatori? Perchè, in premessa, bisogna dirlo, noi liguri siamo legati, come Ulisse, alla terra, non al mare, visto come un ponte per raggiungere e mercanteggiare con altri popoli, con altri mondi. Canta Guccini: “Bisogni che lo affermi fortemente/ che, certo, non appartenevo al mare/ anche se Dei d’Olimpo e umana gente/ mi spinsero un giorno a navigare/ e se guardavo l’isola petrosa/ ulivi e armenti sopra a ogni collina/ c’era il mio cuore al sommo d’ogni cosa/ c’era l’anima mia che è contadina;/ un’isola d’aratro e di frumento/ senza vele, senza pescatori,/ il sudore e la terra erano argento/ il vino e l’olio erano i miei ori”. Capitolo 1 Una cucina che profuma di mare, ma che in effetti è di terra. Lo dice la storia, la tradizione enogastronomica fatta di erbe aromatiche, animali di bassa corte, verdure, castagne e, naturalmente, olio extravergine di oliva. E il pesce? Poco e povero, almeno sino al dopoguerra, quando il turismo di massa ha imposto una cucina di mare che non c’era (se non in piccola parte) nelle antiche cuciniere. E’ la Liguria a tavola, spesso definita cucina povera, ma con un fraintendimento: povera nel numero di materie prime (del resto come può un territorio racchiuso in una manciata di chilometri, stretto tra monti e mare, avere una moltitudine di prodotti), ma certo non avara di gusti elaborati con sapienza nel corso dei secoli. Andiamo con ordine per una storia di gusto che affonda le sue radici comuni nel Medioevo. Si parte dalle Crociate, quando Genova, che stava “studiando” per diventare Superba, approfitta delle guerre per tessere rapporti commerciali con il mondo arabo e riaprire, dopo i Secoli Bui delle invasioni barbariche, le vie dei commerci con l’Oriente misterioso e raffinato, fatto di seta, zucchero, spezie che diventeranno più ricercate e preziose dell’oro. Vie che, nei secoli a venire, saranno oggetto della grande rivalità con Venezia, l’altra dominatrice del Mediterraneo che guarda a Oriente. La differenza tra Venezia e Genova è che la prima le spezie le consuma anche in loco, la seconda le vende (a parte il pepe) e sceglie di insaporire con le erbe aromatiche, più economiche. Genova, la città simbolo, ma in effetti tutta la Liguria, considera il mare non come una fonte di cibo, ma come una grande via di comunicazione, per andare in Oriente, certo, ma anche a Levante, Sardegna, Spagna e oltre le colonne d’Ercole, lungo le coste portoghesi dell’Atlantico, a commerciare con i “vichinghi” per portare a casa il merluzzo pescato e seccato alla Isole Lofoten, lo stoccafisso, grande classico della cucina ligure. Saranno i genovesi a distribuirlo in tutta Europa, attraverso le via del Sale, strade che dalla Riviera scavalcano Alpi e Appennino per portare sale, acciughe, stoccafisso, olio nella Pianura Padana e oltre, e far arrivare in Liguria vino, carne, formaggi. Lo stoccafisso, per tornare a noi, oggi, sotto forma di brandacujun, è un piatto irrinunciabile durante una vacanza in Liguria. E, con la scusa dello stoccafisso, parliamo di olio, perchè lo stocco nasce in acqua, ma muore nell’extravergine. Ancora una volta c’è lo zampino mercantile di Genova, che già dal Medioevo aveva il monopolio del commercio dell’olio, all’epoca prodotto in Spagna, nel Mediterraneo. Non era l’olio che intendiamo noi, serviva per l’illuminazione delle città e delle abitazioni, per la lavorazione della lana e dei saponifici. Solo una piccola parte veniva utilizzata in cucina, per la conservazione, non come condimento. Bisognerà aspettare l’800 per un uso culinario, gli inizi del ‘900 per la sua diffusione mondiale, con l’invenzione dei barattoli in banda stagnata e l’emigrazione di milioni di italiani nelle Americhe. Attorno al ‘400 la Spagna non produce abbastanza olio, Genova impone, anche attraverso i Benedettini, la coltivazione dell'olivo nella Riviera di Ponente. Una imposizione economica che trasforma il paesaggio della Liguria, con i muretti a secco (oggi patrimonio immateriale dell’Umanità) la collina viene letteralmente disegnata, le case in pietra sono un tutt’uno con i terrazzamenti. E l’olio, pian piano, diventa un elemento alimentare. Sugli stessi terrazzamenti, fatti di “sudore, sangue e bestemmie”, si coltiva anche un’altra grande eccellenza ligure: il vino. Oggi Pigato e Vermentino (anche spumantizzati) sono i vini dell’estate sulle tavole dei ristoranti alassini, ma c’era un tempo che si producevano quasi esclusivamente vini rossi, Rossese, Granaccia. Merita una digressione L’Ormeasco, un gemello del Dolcetto piemontese, che in Valle Arroscia ha cambiato profumo e sapore, con una storia secolare. Furono i Clavesana a volerlo impiantare già nel 1303. E imposero anche delle regole, come la data della vendemmia e della vinificazione. Per i ladri di uva si poteva arrivare anche alla condanna a morte. Ma l’Ormeasco è anche il vino che ha “ispirato” (alcolicamente parlando) la rivoluzione giovanile del ‘68. Nel 1957, a Cosio d’Arroscia, infatti, arrivarono da Albissola, un gruppo di artisti e intellettuali (tra cui Guy Debord, francese, ispiratore e guru del ‘68 parigino) per festeggiare un amico, Piero Simondo, appena sposato a Cosio. Assieme a lui Michèle Bernstein, Asger Jorn, Pinot Gallizio, Pegeen Guggenheim e Ralph Rumney, Walter Olmo. A Cosio scrivono il manifesto del Situazionismo, movimento artistico e politico che caratterizza gli Anni ‘60 (e ancora oggi ha grande influenza). Arte, politica e vino in quella settimana del 1957. Certo, l’Ormeasco bevuto dai fondatori del Situazionismo è totalmente diverso di quello di oggi. Se all’epoca si distribuiva in damigiane, era il vino delle osterie di Albenga e Imperia (in quella settimana del 1957 addirittura le due osterie del paese scesero a Pornassio ad acquistarne ancora, perchè quei giovani avevano terminato tutte le scorte in cantina, dicendo però che le vigne di Cosio, oggi inesistenti, erano tra le più ricercate), oggi è un vino ricercato, eclettico, che si può vinificare in rosso, può essere Superiore, spumante, passito, sciac-e-tra. Restiamo nell’entroterra, tra i muretti a secco, dove ai bordi un altro “pane del passato”. A Moglio, frazione collinare di Alassio, le chiamano “paiette”, in valle Impero “pan de fighi”, ma in effetti sono fichi, raccolti in estate, seccati sui graticci al sole (o nei seccatoi usati in autunno per l’uva per far vini passiti, o in autunno inoltrato per cachi e castagne), custoditi in foglie di fico. “A Moglio il ‘panetto’ di fichi secchi viene costruito nel mortaio dove si fa il pesto”, racconta Domenico Rapa, ormai memoria storica delle tradizioni enogastronomiche della frazione. La tradizione ligure dei fichi, un “pane”, al pari di castagne e acciughe, che spesso viene dimenticato. Eppure è un pane che resiste ancora oggi nel linguaggio, siappure con significati opposti rispetto al passato. I “Figui”, i “Figoni”, erano i Ponentini, da Albenga e Ventimiglia (ma c’erano “Figoni” anche alle Cinque Terre e nello spezzino, come conferma Marco Rezzano, presidente di Enoteca regionale ligure), ma erano delle classi sociali (parliamo del Medioevo) meno abbienti, un sinonimo di malaffare, di persone che potevano essere deportate in Provenza per ripopolare villaggi decimati dalle guerre o dalla peste. Perchè i fichi, che avevano un potenziale commerciale notevole (quelli secchi venivano commercializzati in Piemonte, assieme ad acciughe e sale), erano anche a disposizione dei “mariuoli” (i Figoni, appunto) per sfamarsi. Facciamo due passi verso la montagna ed ecco il bosco, il castagno, soprattutto, che per secoli ha sfamato generazioni di liguri. Non sono bollite, ovviamente, ma soprattutto come farina da usare, mescolata, con quella poca, bianca, di grano. Trofiette, corzetti, tagliatelle, lazarene erano scure e dolciastre, oggi una chicca gourmet, al tempo una necessità. Condite, però, con sughi odorosi, fatti di funghi, di formaggi freschi, di erbe aromatiche. Del resto la pasta, in tutta la Liguria, si fa e si commercia dal 1300, quando a Savona, Genova, Imperia nascono le prime corporazioni dei “fidelari”, dei pastai. Le trenette, simili, non eguali alle linguine, sono la tipicità della Liguria e si sposano, in maniera unica, con il pesto. Detta! La parola magica del gusto ligure! Un simbolo della cucina regionale è il mortaio, rigorosamente in marmo di Carrara, con pestello in legno di ciliegio, capace di contenere l’aglio di Vessalico, naturalmente, e l’olio per l’ajè o ajolì in Provenza, le acciughe e l’olio per il machetto, le fave e la menta per il marò.