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Cives apre un suo trattato sui programmi della scuola con questa affermazione: “I programmi didattici rappresentano un momento significativo di incontro tra storia generale, e quindi a un tempo sociale e politica, storia della cultura e della pedagogia, storia della scuola, storia della didattica” (Cives, 1993, 145). Dai brevi cenni che seguiranno tale affermazione prenderà corpo nelle sue varie manifestazioni. Nella metà dell’800 furono istituiti i primi programmi per la scuola elementare (1860) a seguito della Legge Casati del 1859. In questi programmi sono presenti già gli elementi fondamentali che caratterizzano la connessione tra educazione e istruzione: - Che cosa bisogna insegnare per una adeguata alfabetizzazione culturale (a leggere e scrivere in italiano –eliminando i dialetti-, la matematica, le scienze, la geografia, la storia patria), - Quali comportamenti sono socialmente accettabili e quindi da favorire uno sviluppo identitario di genere (quali conoscenze-azioni per le femmine, diverse da quelle previste per i maschi), - Quale atteggiamento e comportamento deve tenere il maestro, in bilico tra l’essere figura paterna sul modello di Pestalozzi, capace però di gestire accuratamente anche premi e castighi. Un altro aspetto emerge: il legame fra la politica e la visione culturale (sono prevalentemente governi di destra quelli che si succedono dal 1860 al 1880), la cultura filosofica (lo spiritualismo) e la riflessione pedagogica. Con i programmi stilati da Gabelli nel 1888 si nota un cambiamento verso una cultura positivista che porta con sé la valorizzazione del metodo dello spirito scientifico, cioè dell’osservazione, dell’esperienza controllata. Assume centralità educativa e formativa la capacità critica e riflessiva. Nelle Istruzioni Generali si rimarca che la scuola ha tre finalità: dar vigore al corpo, sostenere lo sviluppo dell’intelligenza e della rettitudine dell’animo. L’obiettivo è di costruire negli studenti “dei modi di pensare” che durino tutta la vita, e non un insieme di nozioni che andrebbero facilmente dimenticate. Ciò che l’alunno apprende deve diventare strumento per l’azione: attraverso questo processo di applicazione/reinterpretazione/contestualizzazone può imparare a spostare un oggetto di conoscenza da un ambito (la scuola) ad un altro (la vita quotidiana oltre la scuola) o da una specifica situazione (nella quale apprende per la prima volta), ad una situazione più complessa (quella in cui si trova ad applicare quanto appreso o a trasformarlo per renderlo maggiormente incisivo). Con la rivisitazione dei programmi elaborata da Bacelli (1894) si ritrova una forte intenzionalità educativa, interpretata come controllo, e la funzione dell’istruzione è di uniformare le conoscenze e i comportamenti. Addirittura si giunge a ritenere che l’eccesso di istruzione volta a far sì che gli alunni si approprino del sapere quale strumento/processo per accrescere la propria persona, sia negativo. Compito del maestro è soprattutto educare, quindi è sufficiente affrontare nella scuola quelle attività che consentono di apprendere a leggere, scriver, far di conto e diventare un galantuomo (Cives, 1994,154)1. Si intuisce facilmente da queste brevi note che vi è una sorta di “altalena” nella definizione delle varie riforme scolastiche, influenzate da ideologie sull’educazione, aspetti economici e politici, più che da una visione sul sapere disciplinare. Nel 1923 Lombardo Radice, allievo di Gentile, cura la stesura di quei programmi che diventarono un vero e proprio riferimento nella cultura scolastica per molti decenni. La scelta dei contenuti e dei temi da insegnare è palesemente condizionata dal dominante Idealismo che in questo periodo ha accantonato la visione positivista, ha reso non importante dal punto di vista dell’educazione e dell’istruzione la tensione verso lo spirito critico accentuando invece quella visione metafisica, estetica, creativa da alimentare fin dalla prima infanzia. Trovano molto spazio nella scuola l’insegnamento alle attività espressive come il canto, la lingua, il disegno. La Riforma Radice si colloca esattamente nel periodo fascista: la visione politica porterà verso una interpretazione particolare di questi programmi, intesi come strumenti per “creare” comportamenti e visioni nei soggetti in linea con i dettami politici. Il dopoguerra vede il superamento della visione nazionalista che aveva caratterizzato il ventennio precedente con i programmi del 1945 curati da Wasbhurne (allievo di Dewey), il quale imposterà una visione della scuola funzionale a formare l’uomo e il cittadino, con una forte impostazione democratica. Si ritorna ad un insegnamento delle discipline come “mezzo” per alimentare il potenziale di ogni alunno, riprende vigore una fiducia nel potere di apprendimento e di scoperta. Nasce in quegli anni una vasta riflessione sul valore della collaborazione e della cooperazione che diverranno, fino agli anni nostri, i pilastri sui quali verranno costruite le teorie dell’apprendimento collaborativo. Questi programmi però erano troppo innovativi per essere pienamente compresi da una cultura che ancora non aveva superato l’impatto con il trauma della guerra e del periodo fascista e furono sostituiti dai programmi Ermini nel 1955, caratterizzati da una visione democristiana (era ormai il partito più radicato nel governo italiano). Il prevalere di una visione cattolica e ispirata all’Idealismo porterà verso la rappresentazione di un fanciullo tutta intuizione, fantasia e sentimenti, la cui creatività deve essere favorita. Il problema è proprio che questa dimensione creativa non appare adeguatamente supportata da una forte dimensione di conoscenza, la visione sulle discipline è piuttosto debole (soprattutto nel secondo ciclo della scuola elementare). Va notato che in questi programmi si presenta un differente grado di prescrizione rispetto ai precedenti, prevale un’ottica quasi di indicazione verso una traiettoria formativa. I contenuti da affrontare divengono oggetto di scelta da parte del maestro che può selezionare quali argomenti sono importanti rispetto ad altri; può, ad esempio, non seguire rigidamente la linearità cronologica nell’insegnamento della storia. Saranno però le case editrici che si occupano della manualistica scolastica, a riportare un “ordine” sui temi da trattare contribuendo in modo significativo al diffondersi di una cultura diffusa sull’insegnamento della disciplina. e di tale termine in letteratura risale al 1918, in ambito statunitense, ad opera di Franklin Bobbitt, docente di amministrazione dei processi formativi presso l’università di Chicago. Bobbitt, alla luce delle accelerazioni che il nuovo secolo (il Novecento) stava imprimendo all’evoluzione della società, auspicava un nuovo modello educativo che fosse adeguato alla contemporaneità. Il termine curriculum viene introdotto in un senso molto letterale, come cursus studiorum previsto dalle istituzioni per i giovani, improntato ad una giusta medietà tra studi scientifici e studi storico-sociali (Bobbitt, 1918)” (Pentucci, 2016)2. Nel sistema scolastico statunitense il curriculum (ancora in forma latina) è il programma di un corso scolastico comprensivo del materiale didattico necessario allo stesso, delle indicazioni per lo svolgimento del corso e dei metodi di valutazione (Bruner, 1967, 72). Questa prima definizione fornisce l’idea del curriculum come uno spazio-tempo da percorrere e nel quale lo studente viene inserito affinchè si appropri delle conoscenze e competenze necessarie per la sua formazione, spazio-tempo che ha in sé delle regole che ne determinano il senso e il fondamento. Ad esempio Bruner, nella sua teoria dell’istruzione, vedeva nella progressione uno dei criteri fondamentali per progettare l’insegnamento. Se ogni capacità o conoscenza può essere insegnata a qualsiasi età allora è di fondamentale importanza fare chiarezza sul risultato che si vuole raggiungere al termine del percorso di istruzione, attuare una ricorsività dei temi, approfondendo e complessificando quanto viene affrontato, a seconda delle età e potenzialità degli studenti. Di curriculum (nel linguaggio attuale curricolo) quindi si può parlare attribuendolo ad un singolo corso di insegnamento (es. il curricolo di 3 Il curriculum in Stenhous Stenhouse, nel suo testo ‘Dalla scuola del programma alla scuola del curricolo’ (1977)3, parte dal dibattito sul curriculum sviluppatosi negli Stati Uniti fra il 1960 e 1970. Egli riporta alcune delle definizioni di curricolo 1) Johnson (1967): “si conviene qui intendere il curricolo come una serie articolata d’esiti culturali prestabiliti. Il curricolo fissa in anticipo (o almeno si ripromette) i risultati dell’apprendimento” (ivi, 130) 2) Inlow(1966):“ilcurricoloèilprogrammacompositoelaboratodaciascunascuolaalfinedi orientare verso esiti prestabiliti l’apprendimento degli allievi” (ivi, 7), 3) Neagley ed Evans (1967) “il curriculum è la programmazione d’un complesso d’esperienze elaborate dalla scuola affinché gli alunni conseguano gli esiti culturali previsti al massimo delle loro capacità” (ivi, 2). Dall’analisi delle pratiche e della letteratura Stenhouse individua due tipologie di curricolo: da una parte esso si configura come intenzione, programma o indicazione, cioè come idea di ciò che si auspica possa ottenersi a scuola, dall’altra rappresenta invece un quadro della reale situazione scolastica, di ciò che in effetti avviene (ivi, 16).” Sulla base di queste considerazione propone la seguente definizione: Un curriculum è un tentativo di comunicare i principi e le caratteristiche essenziali d’una proposta educativa in forma tale da restare aperto a qualsivoglia revisione critica e suscettibile di un’efficiente conversione in pratica (Stenhouse, 1991, 18). L’autore prosegue affermando