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Il triangolo di Houssaye Se fin qui la relazione tra insegnante e allievo ha costituito la struttura a partire dalla quale si sono sviluppati modelli differenti (Dispensa Didattica: origini e dualismi.), è dagli anni ’80 del secolo scorso che appare in modo manifesto la presenza del “terzo” elemento, ovvero il “sapere”. Houssaye1 disegna il “triangolo pedagogico” con alla base lo Studente e l’Insegnante, e al vertice il Sapere. È uno schema che consente di riassumere e far visualizzare velocemente quali possono essere le “posture” che caratterizzano i diversi approcci e modelli didattici che si sono succeduti nel tempo. Le posture potrebbero essere identificate come le “preferenze” che vengono accordate nella relazione didattica-educativa. La postura “insegnare” caratterizza il rapporto che si dà tra l’insegnante e il sapere. Il docente è impegnato nella costruzione di un progetto organico di insegnamento, decide e seleziona i contenuti, li organizza, elabora materiali o propone lezioni affinché, attraverso l’ascolto e la successiva ripetizione, gli studenti possano a loro volta riproporre quel tipo di sapere che è stato loro trasmesso. Il lavoro di rielaborazione viene effettuato proprio dall’insegnante, soggetto attivo che si impegna nel costruire relazioni, rimandi approfondimenti; il risultato di apprendimento, in termini di significatività2, è certamente maggiore per il docente stesso che, lezione dopo lezione, diventa sempre più abile nel proporre le tematiche. La postura “formare” vede la dominanza della relazione tra alunno e insegnante mettendo in latenza il sapere. L’adulto rimane in posizione dominante ed è in grado di esercitare il suo carisma sull’allievo. Diviene quasi una forma di “seduzione” (Damiano, 2013) che l’insegnante esercita attraverso il proprio corpo, la gestualità, la voce, anche l’abbigliamento, il movimento. Molta letteratura si è concentrata sull’analisi della gestione dello spazio dell’aula (uso della cattedra rialzata, posizione dei banchi...) e delle modalità con le quali l’insegnante occupa questo spazio per regolare la situazione didattica, per controllare o incentivare la partecipazione. La seduzione3 si rende particolarmente visibile nel momento in cui il docente cattura l’attenzione degli studenti con diversi artifici (uso dell’intonazione, l’animazione, uso dello sguardo...), o ne contiene con aspetti affettivi-emotivi i comportamenti. L’investimento emotivo che l’alunno realizza nei confronti dell’insegnante costituisce una vera e propria risorsa per l’apprendimento qualora il docente non si limiti a compiacersi dell’accondiscendenza e “dedizione” dei propri studenti alla sua persona, ma le canalizzi verso il sapere. Deve gestire una forma di transfert4: “Compito dell’insegnante è diventare oggetto d’amore, ma per spostare la carica altrove, verso l’innamoramento delle materie di insegnamento” (Damiano, 2013, 103). La postura “apprendere” è quella che caratterizza l’Attivismo, centrata sulla spontaneità dell’alunno e sulla sua capacità di osservare, riflettere, ripensare la realtà, di prendere iniziative e di elaborare conoscenze. L’autoregolazione e la capacità del bambino/studente di sviluppare competenze nell’analizzare il proprio apprendere costituiscono nodi fondamentali che verranno 3 Bertolini P. (1989). L’eros in educazione. Considerazioni pedagogiche, in P. Bertolini. M. Dallari (a cura di) Pedagogia al limite, La Nuova Italia, Firenze, pp. 121-153. 4 Il transfert è quel processo per cui, nella psicanalisi, avviene un processo attraverso il quale l’individuo tende a spostare sentimenti, emozioni da una relazione significante passata a una persona coinvolta in una relazione attuale. Tale processo è largamente inconscio. Nella dinamica della classe il docente deve dislocare l’investimento affettivo dell’alunno dalla sua persona al sapere, alla conoscenza, trasformando così una relazione che da personale diventa oggettuale (Damiano, 2013, 102). Il transfert non va confuso con il transfer, processo che consente di trasferire, traslare da un contesto ad un altro le conoscenze e le competenze acquisite per affrontare situazioni differenti. Università Telematica Pegaso I modelli di Houssaye e Develay ripresi ampiamente nella letteratura recente per ripensare la didattica, le metodologie di valutazione e autovalutazione in un’ottica formativa. Houssaye formula anche una generalizzazione che deriva dall’osservazione diretta dei modelli didattici: non sembra possibile assegnare la medesima importanza a tutti e tre i poli nel medesimo momento; solitamente si privilegia una particolare relazione duale a scapito del terzo che assume un ruolo più debole, gregario. Se, ad esempio, la relazione è fra insegnante e sapere il terzo polo, l’alunno, diviene marginale, in quanto destinatario e non direttamente coinvolto nel processo di elaborazione o di accesso diretto al sapere; se la relazione è tra insegnante e alunno, il sapere diviene solo lo spunto per dar luogo a quella relazione, non ne costituisce il fondamento; se la relazione è tra l’alunno e il sapere, è l’insegnante che resta marginale in quanto le decisioni, l’azione è prevalentemente in mano all’alunno stesso, impegnato a fare esperienza per apprendere. Come si vedrà in seguito questa apparente assenza del docente non è reale, a meno che non si scada in quei processi di spontaneismo e di assoluta delega allo studente del proprio apprendere come si è verificato in alcuni casi in cui la visione idilliaca di un soggetto capace di autoregolare sempre e comunque la propria azione ha dominato la didattica. pone un diverso triangolo sostituendo il termine “pedagogico” con il termine “didattico” per indicare la prevalenza dell’attenzione ai saperi delle discipline. Develay dispone i tre poli in un diverso ordine, più per consentire un’organizzazione grafica che per assegnare un significato preciso al vertice superiore, dove ora è posizionato l’alunno. Studiare l’alunno, i suoi comportamenti, le modalità di apprendimento, sono tutti ambiti ampiamente trattati dalla psicologia dello sviluppo e dell’apprendimento, proponendo diverse interpretazioni fra loro connesse in termini evolutivi. Il comportamentismo6, ponendo attenzione alla manifestazione del comportamento come unica unità di analisi ha condotto verso l’osservazione dei risultati di apprendimento in termini di performances, il cognitivismo7 ha indotto ad approfondire i processi attraverso i quali si strutturano le conoscenze e il costruttivismo8 ha potenziato l’idea della conoscenza come prodotto individuale e sociale a partire dai processi di interazione che avvengono tra soggetto e ambiente. Occuparsi quindi dell’apprendimento dell’alunno significa porsi nella condizione di dover chiarire che cosa si intende realmente per “apprendimento” e come questo avvenga. Ecco che nel legame stabilito tra alunno e sapere scolastico si trovano le “rappresentazioni o concezioni”. Esse sono il risultato di tutta l’esperienza di apprendimento costruito dall’alunno, sono le teorie che egli stesso ha elaborato a partire dalle proprie sensazioni, osservazioni, dall’ascolto e dall’esperienza. Un insieme di frammenti che si riuniscono per dare senso a ciò che si sta imparando. Tutti gli esseri umani hanno sviluppato rappresentazione e concezioni che spesso sono diverse l’una dall’altra, proprio per la loro origine soggettiva e fortemente dipendente dai vissuti. Si pensi, ad esempio, alle modalità con le quali ciascuno costruisce spiegazioni rispetto ai fenomeni reali che incontra per la prima volta. Raccoglie le informazioni e stabilisce relazioni tra gli elementi che gli sembrano “vere”, o almeno probabili. A volte si può avvalere di “saperi esperti”, in altri casi di semplici opinioni ascoltate da altri, oppure creare generalizzazioni a partire da un singolo caso considerandolo come emblematico di un mondo. Tutti questi processi non garantiscono una “conoscenza corretta” della realtà o un avvicinamento proficuo ai saperi disciplinari, ma sono comunque “il sapere” che quel soggetto possiede e che non può essere ignorato quando un qualsiasi educatore/insegnante si ponga nella condizione di dover istruire/formare. Le concezioni e le rappresentazioni maturate attraverso l’esperienza personale sono resistenti al cambiamento, debbono essere poste in crisi da conflitti cognitivi, etici perché il soggetto decida di rivederle. È compito quindi di colui che si occupa di situazioni formative e istruttive di rilevare tali rappresentazioni e concezioni, di farle emergere, di renderle esplicite al fine di poterle rivedere insieme all’alunno, all’educando. Ignorare questo mondo di conoscenza esistente è la condizione ideale per dar vita ad un apprendimento parallelo, per mantenere una separazione tra “ciò che si sa” e “ciò che si apprende a scuola”, creando così le basi per una inutilizzabilità del sapere che viene affrontato nelle aule scolastiche. Il polo pedagogico viene collegato all’insegnante attraverso l’individuazione della relazione che si concretizza nel “contratto didattico”. La prima definizione di contratto didattico è stata elaborata da Brousseau (1986) per evidenziare come nella continuità del rapporto tra insegnanti e allievi si venga a costituire una sorta di set di aspettative di comportamento, spesso implicite, favorite dal setting, dalla ripetitività di alcune situazioni. Nella continuità del vivere scolastico, ben presto, l’alunno comprende ciò che ogni insegnante si aspetta da lui e generalmente agisce di conseguenza, adattandosi ai modelli di lavoro, alle tipologie di dialogo, alle differenti visioni sulla qualità del lavoro e così via. Quanto più l’alunno è abile nel cogliere queste aspettative dell’insegnante, quanto più risulta, agli occhi del docente stesso, maggiormente capace di vivere la realtà di insegnamento. Nascono in quest’ambito anche le problematiche connesse alla valutazione .